Editoriali

Il dicorso del presidente dei giornalisti

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L’intervento integrale del presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, Riccardo Arena alla festa di San Francesco di Sales (palazzo arcivescovile Palermo)

Don Corrado, confesso la mia inesperienza in materia e per questo non so se chiamarla Eminenza, Eccellenza, Monsignore o in un altro modo più o meno deferente.

Nell’incertezza mi consenta – ci consenta – di chiamarla così: don Corrado. Proprio come familiarmente chiameremmo il parroco del nostro quartiere o di una immaginaria chiesa dei giornalisti siciliani, una chiesa che non esiste, perché il popolo eletto (in realtà sempre meno eletto e sempre più reietto) dei giornalisti non ha una chiesa, essendo formata la nostra genia da ottimi figli della Chiesa vera e propria, da cattolici praticanti e da bravi cristiani, da brave persone – che non necessariamente coincidono con i bravi cristiani, magari sono pure meglio – da miscredenti o da uomini e donne che la fede magari l’hanno persa o non l’hanno mai avuta, da laici che sono persino capaci di pensare in maniera laica e da persone che credono nei valori della religione, come da altre che credono nella religione dei valori.

Siamo una categoria che dovrebbe essere irriverente per antonomasia, eppure in alcune sue componenti appare anche tanto, troppo riverente. Una categoria sovente cinica ma altrettanto spesso incoerente, che obbedisce alla religione della notizia ma non ne fa un mito da esaltare, dato che purtroppo va ogni giorno di più appresso alle non-notizie – e più sono non-notizie e più belle e interessanti le trova, con ciò contraddicendo se stessa e la propria ragione di esistere.

Da cronista da marciapiede e da tribunale, arrivato quest’anno alla mia personale 23.ma cerimonia, ho molto apprezzato, don Corrado, la sua assenza all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ho sempre pensato che a una manifestazione che celebra il rito laico e pagano della giustizia amministrata in nome del popolo e che, magari nella speranza di cercare di sbagliare il meno possibile, si affida al crocifisso appeso nelle aule, la presenza dell’arcivescovo della città non abbia una funzione reale ma solo decorativa. L’arcivescovo è il pastore e il pastore sta accanto alle sue greggi: quando ho saputo che lei non è venuto al palazzo di giustizia perché aveva preferito stare vicino a un suo fratello morto, in mezzo a una comunità ferita da un lutto, ho capito che abbiamo un pastore che non perde tempo ad ascoltare i numeri, spesso vani e vacui, della giustizia degli uomini, ma preferisce stare in giro, come i cronisti, per testimoniare.

Don Corrado: come avrà capito, i giornalisti siamo una vil razza dannata, primus inter pares (fra i mascalzoni) chi le parla, e cioè il presidente, peccatore come e più degli altri. Tuttavia siamo una categoria di martiri nel senso non solo del martirio (che quello pure c’è stato, con i morti ammazzati, e c’è ogni giorno, col precariato e con le difficoltà di tutte le testate, grandi e piccole), ma nel senso etimologico della testimonianza offerta da noi giornalisti, da noi cronisti che ancora ci ostiniamo ad andare per le strade a raccogliere le notizie, poi selezionate e “cucinate” da altri giornalisti e offerte al pubblico, in quel meraviglioso lavoro di scelte di grande responsabilità che è costruire l’informazione.

I martiri sono stati il sale della Chiesa, i profeti hanno fatto i cronisti di quella grande storia che è la Bibbia e l’Antico Testamento in particolare, gli evangelisti e gli apostoli e poi i santi hanno testimoniato, spesso a prezzo della vita, con grandi e immortali cronache, le formidabili vicende del Dio che si è fatto uomo e anche per chi non ci crede, ma è dotato di un saggio, razionale e laico rispetto per le convinzioni altrui, il Nuovo Testamento è informazione pura, su quella che è la Fede cristiana e la sua definizione più azzeccata, fotografata dalla lingua latina: Fides est sperandarum substantia rerum et argumentum non apparentium, la fede è la sostanza delle cose che si possono e devono solo sperare e l’argomento per dimostrare ciò che non appare.

Questa che oggi lei incontra, don Corrado, è una professione che fa della fede laica la propria missione – o mission, come oggi usa dire con un inglesismo di cui non si sentiva proprio il bisogno.

Fede nel futuro, nel senso che conserviamo la speranza di imparare a trovare la via per districarci nelle secche della crisi, prima di perdere ogni residuo di fiducia, magari avendo in barca con noi un Maestro che ci indichi dove gettare le nostre reti e che ci faccia rischiare che poi la barca si rovesci per l’abbondanza e il peso del pesce catturato. Perché il pesce c’è senz’altro, ma siamo noi che non riusciamo più a vederlo né tanto meno a prenderlo.

Fede in mezzo ai grandi scossoni e alle tempeste della nostra società: e anche in questo caso ci farebbe piacere avere a bordo un Maestro che magari si addormenta – ma poi si risveglia – mentre ci dibattiamo tra guerre di religione, tra fanatismo, demagogia e populismo, fra i razzismi identitari di ogni genere e contro ogni diverso (dal nero al cristiano o al musulmano, dal gay all’eterosessuale, dal povero al peccatore, dalla prostituta al pubblicano), fra l’odio e gli integralismi di ogni natura, subendo regimi totalitari che assassinano i giornalisti, districandoci tra criminalità organizzata e mafie, tra minacce e concrete soverchierie, tra querele e risarcimenti, tra una politica sorda e che ci vuole solo disoccupati o sottoccupati e dunque asserviti ed editori ormai votati all’improvvisazione, ma che sanno sempre dove tagliare, cominciando cioè immancabilmente dal costo del lavoro, dallo sfruttamento intensivo del precariato, dalla crescente dequalificazione del lavoro e del prodotto giornalistico.

Quel Maestro che abbiamo conosciuto dalle cronache evangeliche di cui parlavo prima, stando sulla nostra barca sballottata dalle acque agitate, si sveglierà e ci rimprovererà come il Figlio dell’Uomo chiamò i suoi discepoli: uomini di poca fede, facendo tacere acque che, proprio per quella mancanza di fiducia, erano divenute furiose e perigliose. Noi vorremmo solo che qualcuno ci svegliasse dal lungo torpore di chi si trova da troppo tempo in balia delle onde del nostro immenso lago di Tiberiade, senza avere più qualcuno che tenga la barra diritta.

Infine, don Corrado, vorremmo una fede laica che ci guidasse nelle anse e nelle ansie del tortuoso fiume della Chiesa palermitana e siciliana, che affronta le traversie e le sofferenze di un tessuto sociale povero, asfittico, improduttivo, cencioso e dimenticato, in cui gli ultimi sono ineluttabilmente ultimi e in cui i veri pastori missionari (categoria cui non appartiene il laico e a noi legatissimo Fratel Biagio) non fanno carriera nelle gerarchie ecclesiastiche e magari incontrano pure, col sorriso sulle labbra, il piombo mafioso come don Pino Puglisi, martire, testimone e cronista di una storia meravigliosa, scritta col suo sangue.

Sangue che ha reso vano il progetto dei suoi assassini, perché la sua opera, la sua immagine, la sua forza resteranno indelebili e indistruttibili proprio grazie a quel sacrificio perenne a Dio gradito, come recita il messale.

Vorremmo, don Corrado, abbastanza fede laica per capire i misteri delle ricchezze che spariscono, del dio denaro che tenta certi pastori senza greggi più del Maligno sul pinnacolo del tempio, delle processioni che si inchinano a capi e capetti da due o da quattro o anche da otto soldi, ma che spesso sono solo personaggi da trenta denari, e davvero di fronte a questi tetri e fiacchi riti non ci è dato capire come si possa dare peso a un’organizzazione ridotta a manifestare il proprio potere mafioso con l’inchino imposto a un simulacro che raffigura chi mai si piegò, tanto da essere considerato divinità o santo.

Vorremmo, don Corrado, vivere e raccontare una Chiesa che non ha paura della propria missione, coraggiosa nel fare i conti con il proprio passato e il proprio presente segnato da assenze e più o meno gravi omissioni, con la pedofilia come con la piaggeria, con la vicinanza a certa politica deteriore come un tempo lo fu alla mafia e ora magari lo è rispetto a certa antimafia di maniera, passata – absit iniuria verbis – da Sagunto a Saguto.

Vorremmo, don Corrado, anche noi riuscire a fare i conti con noi stessi, con insufficienze, pecche e manchevolezze, essere insomma chiesa laica nella Chiesa, ritrovarci attorno ai valori, non necessariamente religiosi, della Chiesa, ma ai valori aconfessionali ed eterni della professione, della deontologia, della democrazia, del rispetto dei principi della Costituzione, della libertà di pensiero e di espressione dunque della facoltà incondizionata e incondizionabile di credere o di non credere, sale di qualsiasi religione che tenda al proprio fine ultimo e più nobile, quello della vera libertà dell’uomo, che è principalmente libertà di scelta.

Che poi, a pensarci bene, è la più importante libertà riconosciuta al nostro mestiere.

Una libertà fatta, oltre che di giustizia sociale e di un’esistenza libera e dignitosa, anche di consapevolezza, informazione, cultura, capacità di discernimento e soprattutto – ciò che più manca oggi a noi, che dovremmo riuscire a farcene vettori – di fede nel futuro.

Benvenuto fra noi, don Corrado, e grazie per non essere un’Eminenza o un’Eccellenza, ma di essere disposto a fare da pastore anche per questo gregge malucumminatu e fatto di uomini di poca fede, ma valorosi, che sono i giornalisti siciliani, feriti purtroppo dal martirio di otto di noi, ma muniti anche di 5200 testimoni, che poi sono i 5200 iscritti a questo povero Ordine che oggi qui rappresento e che, don Corrado, le presento.

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