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Editoriali

La dipendenza tecnologica. C’è chi è sempre on line

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Il titolo è emblematico e riguarda tutti coloro i quali utilizzano, a vario titolo,  facebook. Probabilmente neanche il fondatore Mark Zuckerberg ed i suoi compagni di college immaginarono una “epidemia” di cosi tanti iscritti; un network tradotto in oltre settecento lingue e considerato il più potente mezzo di comunicazione e pubblicità esistente online. Dipende molto dall’uso che si fa di questo incredibile strumento di comunicazione di massa. Chi è costantemente on line è ad alto rischio “patologico”. Tempo fa, il Sole 24 ore”, pubblicò un “libretto delle istruzioni”, una sorta di bugiardino”, proprio come si fa per un medicinale, in cui viene  spiegata la posologia, le avvertenze, le controindicazioni e le istruzioni per l’uso. Tra gli effetti collaterali, vi è senza dubbio la “dipendenza” che, come la dipendenza da internet, appartiene alle nuove “dipendenze senza sostanza”. Secondo gli esperti queste forme di dipendenza oltre ad obbligare chi ne soffre a stare sempre connesso, genera una vera e propria assuefazione da web. Lo si nota per esempio in chi aggiorna il proprio profilo di continuo, quasi in tempo reale; pubblica link e sta sempre online. E se al momento la persona prova una sensazione di benessere ed appagamento, alla lunga rimane intrappolato psicologicamente al tal punto da cadere nel patologico. Uno dei più importanti psicologi italiani, Paolo Crepet, tempo fa ha scritto un libro, dal titolo: “Non siamo capaci di ascoltarli: riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza”. E’ il frutto di un lungo viaggio nel paese ad ascoltare e incontrare genitori, studenti, insegnanti, educatori. Crepet scrive: ”La scuola e la famiglia sono attraversate da una crisi silenziosa: nulla è più come qualche decennio fa eppure sembra difficile per tutti trovare nuova autorevolezza e disponibilità a guardarsi con spirito autocritico”. Né manuale, né saggio, questo libro contiene rabbia e indignazione per ciò che non si fa per amare i nostri bambini e i nostri adolescenti.  Molti adolescenti hanno un utilizzo patologico della tecnologia, dei social network, delle chat, con connotazioni spesso “consolatorie di mascherate solitudini”. Internet diviene l’amico del cuore, l’amante passionale, il genitore confortevole, il terapeuta consolatorio ed il medico online, rappresenta comunque un “rifugio mentale”. La seduzione della rete, porta ad un iperinvestimento del mentale, togliendo voce al corpo, ai suoi bisogni, desideri, necessità. Si aprono scenari sempre più inquietanti sul piano delle relazioni umane. Si spera che possa accadere qualcosa che porti a frenare ormai questa emorragia di gente assuefatta!

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Editoriali

Il lavoro che c’è! I dati Istat

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L’Istat ha diffuso in questi giorni le stime mensili su occupati e disoccupati. Il calo dell’occupazione registrato nel confronto trimestrale si associa alla diminuzione delle persone in cerca di lavoro e alla crescita degli inattivi. Politici e opinionisti in tv sembrano avere la ricetta “magica” per fronteggiare l’alto tasso di disoccupazione giovanile.

Sembra prevalere la tesi che il problema sarebbe quasi esclusivamente riconducibile alla crisi economica che ha messo in ginocchio il sistema produttivo dello stato e di conseguenza abbassato il livello occupazionale.

C’è uno studio che fa da contraltare; lo ha condotto l’agenzia McKinsey & Company indagando sul rapporto “sistema scolastico-mondo produttivo” al fine di cercare le ragioni che stanno al base del costante aumento di disoccupazione. Secondo la ricerca, negli ultimi vent’anni, la probabilità per un giovane sotto i 30 anni di essere disoccupato è risultata essere stabilmente 3,5 volte superiore alla popolazione adulta (la media europea di attesta intorno al 2). Secondo lo studio, il problema lavorativo italiano nascerebbe dal difficile rapporto tra il sistema scolastico e i reali bisogni del sistema produttivo italiano. Molte aziende faticano a trovare giovani lavoratori adatti alle mansioni da svolgere, in primis per carenza di ragazzi formati in determinati ambiti e con le adeguate competenze.

Nel prendere la decisione, solo il 38% degli studenti intervistati conosce le opportunità occupazionali offerte dai vari percorsi scolastici. Il risultato è un disallineamento tra domanda e offerta, evidente in particolare per i diplomati tecnici e professionali. Ma anche per gli studenti universitari lo sbocco professionale resta in secondo piano: “meno del 30% degli universitari sceglie l’indirizzo di studi sulla base degli sbocchi occupazionali, mentre il 66% è motivato dall’interesse e dalle attitudini personali. Da evidenziare anche che solo il 42% delle imprese italiane ritiene che i giovani che entrano per la prima volta nel mondo del lavoro abbiano una preparazione adeguata.

Nel 47% dei casi, rispetto alla media europea del 33%, le aziende italiane reputano i giovani appena entrati nel mondo del lavoro, inadatti a svolgere le mansioni richieste loro. Secondo il rapporto inoltre stage e tirocini hanno una durata inferiore a un mese in quasi il 50% dei casi nella scuola superiore e in circa il 30% dei casi all’università, e coinvolgono solo la metà degli studenti d’istruzione secondaria e terziaria. Il rapporto fa emergere anche un aspetto grave e cioè che la fonte primaria per conoscere le opportunità di lavoro per i giovani italiani tra i 15 e i 29 anni sono gli amici e i parenti. I canali istituzionali come i centri per l’impiego si rendono utili solo all’1% dei giovani del nostro paese. Soltanto per fare un esempio, in Germania, per esempio, gli uffici di collocamento sono il mezzo principale di ricerca di occupazione nell’80% dei casi.

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Editoriali

Bonus psicologo, le nuove regole

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La Commissione Europea ha diffuso nei giorni scorsi dati preoccupanti; lo riporta Famiglia Crstiana: su 300.000 domande, oltre il 60%, pari a 180.000, proviene da cittadini sotto i 35 anni: il 43,55% riguarda giovani tra i 18 e i 35 anni, mentre il 16,62% è a favore di minori (0-18 anni. Pandemia, guerra, inflazione, caro-bollette sono tutti fattori che sicuramente incidono, ma anche lo stress lavorativo, il timore di perdere il lavoro in un periodo di incertezze, i cambiamenti subentrati nei luoghi e negli orari adibiti all’ambito lavorativo hanno avuto conseguenza, soprattutto sui più giovani, su quello che è il benessere psicologo.

A condurre l’indagine ADP Research Institute, su un vasto campione di 33.000 lavoratori in 17 paesi, di cui circa 2000 in Italia. Dalla ricerca emerge che uno su cinque (il 21%) dichiara di non essere attualmente soddisfatto del proprio lavoro. Il primo motivo (44%) è dato dalla mancanza di possibilità di crescita professionale e quindi mancanza di prospettive, il 32% pensa di avere un ruolo poco impegnativo, poco motivante, mentre il 25% è scontento perché l’aumento delle responsabilità corrisponde raramente a un aumento in busta paga. Solo il 6% dichiara come la pandemia gli abbia fatto pensare di abbandonare il mondo del lavoro.

Un particolare disagio lo subiscono i giovani genitori: il 47% pensa che essere genitore sia ancora un ostacolo alla carriera. Oggi non è solo lo stipendio a muovere il giovane lavoratore, non basta la promessa di una paga alta. Il 18% dei lavoratori della fascia 18-34 afferma inoltre di sentirsi giornalmente sotto pressione. Si sente stressato più volte a settimana il 34% degli intervistati, mentre l’11% solo due o tre volte al mese. Causa principale di questa pressione, per un lavoratore su quattro, è l’aumento delle responsabilità subentrato con la pandemia (ma appunto non seguito da un aumento di stipendio o da un salto di carriera), le spesso infinite ore di lavoro giornaliero (22%) ma anche la paura di perdere il lavoro: il 21% non si sente sicuro, è preoccupato.

ro risenta negativamente dei propri problemi psicologici e umore. Il 22% ha inoltre dichiarato come la propria azienda non stia facendo nulla in proposito, non dimostrando interesse nell’incentivare azioni per aiutare i lavoratori psicologicamente più fragili. La scadenza per ottenere il bonus è stata a fine ottobre, le graduatorie sono attese entro il 7 dicembre, poi dall’8 si potranno prenotare le sedute. La misura è stata introdotta nel luglio scorso. Le domande sono state oltre 300mila, per il 60% provenivano da persone con meno di 35 anni. I fondi, aumentati da 10 milioni a 25, sono comunque considerati pochi: potranno soddisfare il 12% circa delle esigenze

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Editoriali

Scuola, giovani e lavoro

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E’ stato molto apprezzato il discorso che il nuovo premier Giorgia meloni ha fatto per l’insediamento alla Camera dei Deputati. Al centro dell’agenda politica 3 temi fondamentali: la scuola, i giovani, il lavoro. Ecco uno stralcio:

“Serve colmare il grande divario esistente tra formazione e competenze richieste dal mercato del lavoro, con percorsi formativi specifici, certamente, ma ancora prima grazie a una formazione scolastica e universitaria più attente alle dinamiche del mercato del lavoro. L’istruzione è il più formidabile strumento per aumentare la ricchezza di una nazione, sotto tutti i punti di vista. Il capitale materiale non è nulla senza capitale umano. Per questo la scuola e l’università torneranno centrali nell’azione di governo, perché rappresentano una risorsa strategica fondamentale per l’Italia, per il suo futuro e i suoi giovani”.

Al di là dei discorsi più o meno costruiti e che attendono sempre la piena realizzazione la speranza è che il nuovo ministro dell’istruzione possa concentrare la massima attenzione sulle fasce più deboli della popolazione in particolare nei confronti di tutte quelle famiglie che hanno molte difficoltà a mantenere i figli a scuola. Quest’anno si celebra il centenario della nascita del Maestro Mario Lodi, celebre la sua frase: “La scuola promuove, punto!” chiaro il riferimento alla scuola di tutti e per tutti.

Tornando al discorso di Giorgia Meloni, il governo non può non tenere conto degli ultimi dati delle ricerche sui Neet (Not in Education, Employment or Training), cittadini di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non lavorano (disoccupati o “inattivi” e  non frequentano corsi formali d’istruzione o di formazione), uno su due è alla ricerca di lavoro da almeno un anno (il 51,6%, una quota più alta di quella del 2020, 44,9%). Lo rileva l’Istat nel report ‘Livelli di istruzione e ritorni occupazionali’. Nel 2021, con la ripresa del mercato del lavoro diminuiscono i NEET disoccupati e quelli appartenenti alle forze di lavoro potenziali: aumenta dunque tra i NEET la quota degli inattivi che non cercano un impiego e non sarebbero disponibili a lavorare (35,9%, +2,7 punti), più frequentemente di genere femminile, con responsabilità familiari di cura e assistenza a bambini o adulti non autosufficienti.

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