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Hand in cap (Dott.M.Milazzo)

Ero salito sulla sedia a rotelle, ecco il mio racconto

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Un mio disco vertebrale decide di spostarsi durante il mio terzo giorno di vacanza. Da quel momento il nostro camper si trasforma in un’ambulanza. Impossibile stare in piedi, camminare o stare seduto: supino o tutt’al più sul fianco sinistro per pochi minuti erano le uniche due posizioni che potevo assumere. E per fortuna che le mie due giovani figlie maggiori avevano da poco imparato a guidare quel nostro grande mezzo di locomozione. Dopo un giorno di tentativi riusciamo ad anticipare il ritorno in nave, la Dubrovnik – Bari. Chiediamo all’agenzia se fosse previsto un servizio di assistenza, ipotizzando la barella come migliore modo per trasferirmi dalla banchina del porto alla cabina dove avrei passato la notte, durante la traversata. Niente barella ma una sedia a rotelle si.

Giunti sulla banchina ai piedi dell’enorme traghetto, ecco giungere Marijan, un marinaio grande, sorridente, vestito di blu e con la mia prima sedia rotella, moderna e blu pure lei. Mi siedo sulla sedia ed è come supponevo. Ci voleva la barella: il dolore da seduto era, come da manuale di clinica ortopedica, di tipo trafittivo e insopportabile. La figlia maggiore, fresca di laurea in medicina, mi suggerisce di provare a stare seduto ma ruotato di fianco, le ginocchia piegate, le gambe rannicchiate al busto, accavallate e ruotate verso sinistra. Ci provo e per miracolo la tensione si allenta. Entro così in modalità… “sedia a rotelle”. Marjian comincia a spingere e, compenetrato nel ruolo di accompagnatore, si china spesso su di me per accertarsi come stessi. Il mio sorriso e il mio pollice in su lo rincuoravano: “Super, super!” continuava a ripetere, malgrado il pallore del mio viso.

La scena mi ricorda un documentario di archeologia, nel quale un assistente di museo trasferiva su un carrello una fragile statua di un ominide di chissà quale civiltà. E inizia l’inaspettato. Le porte dell’ascensore che ci porta al piano della cabina si aprono come il sipario di una scena in cui gli attori principali sono le mie gambe trasportate dalla sedia a rotelle, contorte e bianche di carnagione, in netto contrasto con la pelle delle decine e decine di passeggeri smaglianti, gli spettatori, di ritorno dalle spiagge. Erano proprio tanti in quel lungo corridoio di moquette, e Marijan doveva spesso chiedere permesso perché la folla dei vacanzieri festosi si aprisse al centro e consentire il passaggio delle “gambe su carrozzina”. Fu in quell’istante, all’inizio di quel corridoio, che ebbi un’idea. Starò dalla parte del disabile per alcuni minuti. É un’occasione unica. E inizio a guardare negli occhi chi si accorgeva del mio passaggio. Osservo e sembrava che non esistessi. Esistevano solo loro: quegli arti maledettamente brutti a vedersi, contorti e confusi in un tutt’uno con la carrozzina. E tutti, tutti tranne una signora, avevano attenzione e occhi solo per essi, occhi curiosi alcuni, intristiti altri. Erano sguardi a me noti, io frequentatore degli ambienti legati al mondo della disabilità da dieci anni, tempo della nascita di Stefano, il mio quarto figlio, nato con la sindrome di Down.

Gli assi visivi erano delle linee rette che partivano dai volti degli spettatori e si posavano ora sulle ginocchia, ora sull’innaturale incrocio delle caviglie. Se vivessimo in un tempo educato all’uomo e non concentrato sulle diversità, nessuna gamba contorta o busto rannicchiato impedirebbero di tessere linee rette fra gli occhi nostri e di chi appare diverso.

Non è romanticismo. É una grave esigenza dei tempi, da sempre e forse più che mai oggi. Vuol dire imparare a conoscere dietro le apparenze, essere capaci di aggirare gli ostacoli, superare i sentimenti di inadeguatezza, buonismo e pietismo, vuol dire scoprire la persona e non la diversità, ostacolo all’incontro con essa, e scoprirsi insieme persone, ovvero attori di relazioni autentiche, toccasana per ogni tipo di sociale convivenza. Scoprirsi, ancora, sorprendente uguali perché uniti da ciò che ci contraddistingue: la diversità. Cosi, forse, ogni legge e provvedimento a sostegno di “queste persone” o ogni diritto a loro negato potrebbe essere letto dall’opinione pubblica in modo diverso. Perché ne va di tutti, non di una categoria.

Dimenticavo: l’unica persona che mi ha guardato negli occhi è stata una bella signora sorridente ed obesa. E che la foto mi ritirare quando il peggio ormai era passato.

Marco Milazzo

 

Eventi

“Siamo centomila medici”.Lettera al Ministro della Salute

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Affido alle agenzie la diffusione della lettera sottoscritta dai quasi centomila medici presenti sul gruppo di Facebook “Coronavirus, Sars-CoV-2 e COVID-19” gruppo per soli medici”, di cui faccio parte, indirizzata al Ministro della Salute On. Speranza ed ad altre Istituzioni di riferimento. Il gruppo è nato per condividere esperienze cliniche (diagnosi, terapie farmacologiche, sviluppi ed esiti della malattia da Coronavirus 19) e letteratura scientifica.

Contiene un appello potente alla politica perché sia definitivamente al servizio dei Medici affinché, a loro volta, siano messi in condizione di fare l’unica cosa che vogliono fare: curare i malati e sconfiggere le malattie. Un appello, di fatto, gridato da malati e medici, ad una sola voce, agli amministratori.

Al Ministro della Salute on. Speranza

Ai Governatori di tutte le Regioni

Al presidente della FNOMCEO dott. Filippo Anelli

Ai Presidenti Federali degli Ordini dei Medici Regionali

Siamo un gruppo di circa 100.000 Medici,  di tutte le specialità e di tutti i servizi territoriali e ospedalieri sparsi per tutta Italia,  nato in occasione di questa epidemia,  che da quasi 2 mesi ormai,  sta scambiando informazioni sull’insorgenza della malattia causata dal  Coronavirus, sul come contenerla,  sul come fare, a chi rivolgersi,  come orientare la terapia,  come e quando trattarla, e siamo pressoché giunti alle stesse conclusioni: i pazienti vanno trattati il più presto possibile sul territorio,  prima che si instauri la malattia  vera e propria,  ossia la polmonite interstiziale bilaterale,  che quasi sempre porta il paziente in Rianimazione.

Dagli scambi intercorsi e dalla letteratura mondiale, si è arrivati a capire probabilmente la patogenesi di questa polmonite, con una cascata infiammatoria scatenata dal virus attraverso l’iperstimolazone  di citochine (molecole prodotte da varie cellule che causano fenomeni infiammatori, n.d.s.), che diventano tossiche per l’organismo e che aggrediscono tutti i tessuti anche vascolari, provocando fenomeni trombotici e vasculite dei diversi distretti corporei, che a loro volta sono responsabili del quadro variegato di sintomi descritti.

I vari appelli finora promossi da vari Organismi e Organizzazioni sindacali, che noi abbiamo condiviso appieno, sono stati rivolti a chiedere i tamponi per il personale sanitario, a chiedere i dispositivi di sicurezza per tutti gli operatori, che spesso hanno sacrificato la loro vita, pur di dare una risposta ai pazienti, non si sono tirati indietro, nessuno.

Proprio per non vanificare l’abnegazione di medici e personale sanitario,  oltre ai 1) Dispositivi di Protezione e ai 2) Tamponi,  chiediamo di  3) Rafforzare il Territorio , vero punto debole del Servizio Sanitario Nazionale,  con la possibilità per squadre speciali, nel decreto ministeriale del 10 Marzo, definite  4) USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale, dei team formati da personale medico che servono per supportare i malati di Covid 19, non ricoverati o dimessi, n.d.s.) essere attivate immediatamente in tutte le Regioni, in maniera omogenea,  senza eccessiva burocrazia, avvalendosi dell’esperienza di noi tutti nel trattare precocemente i pazienti,  anche con terapie off label ( l’impiego nella pratica clinica di farmaci somministrati al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti predisposti per patologia, popolazione o posologia, in deroga, per semplificare, rispetto a quanto prescritto dal foglietto illustrativo, n.d.s.), alcune delle quali peraltro già autorizzate dall’ AIFA.

Siamo giunti alla conclusione che il trattamento precoce può fermare il decorso dell’infezione verso la malattia conclamata e quindi arginare, fino a sconfiggere l’epidemia.

Il riconoscimento dei primi sintomi, anche con tamponi negativi (come abbiamo avuto modo di constatare nel 30% dei casi) è di pura pertinenza Clinica, e pertanto chiediamo di mettere a frutto le nostre esperienze cliniche, senza ostacoli burocratici nel prescrivere farmaci, tamponi, Rx e/o TC (esami radiografici o TAC, n.d.s.), ecografia polmonare anche a domicilio, emogasanalisi (prelievo di sangue arterioso per la determinazione della concentrazione dell’ossigeno nel sangue, n.d.s.), tutte cose che vanno a supportare la Clinica, ma che non la sostituiscono.

Lo chiediamo, indipendentemente dagli schieramenti politici e/o da posizioni sindacali, lo chiediamo come Medici che desiderano ed esigono di svolgere il proprio ruolo attivamente e al meglio, dando un contributo alla collettività nell’interesse di tutti.

Lo chiediamo perché tutti gli sforzi fatti finora col distanziamento sociale, non vadano perduti, paventando una seconda ondata di ricoveri d’urgenza dei pazienti tenuti in sorveglianza attiva per 10-15 giorni, ma che non sono stati visitati e valutati clinicamente e che ancora sono in attesa di tamponi.

La mappatura di questi pazienti, asintomatici o paucisintomatici, e di tutti i familiari dei casi conclamati è oltremodo indispensabile per non incorrere in un circolo vizioso, con ondate di ritorno dei contagi appena finirà il ” lock down”

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Hand in cap (Dott.M.Milazzo)

Vietato l’acesso ai disabili alla Torre di Federico di Enna

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Permettere l’accesso regolamentato alla villa “Torre di Federico” così come disposto dal Comune.

È quanto le associazioni “Vita 21 Enna” (Sindrome di Down) ed “Elpis Onlus” (Autismo), attraverso i loro rispettivi presidenti Marco Milazzo e Rosa Maria La Martina, chiedono al Prefetto, Dr.ssa Matilde Pirrera, dopo aver appreso dalla stampa che ha contestato l’ordinanza del Sindaco Maurizio Dipietro. L’atto del primo cittadino consente alle persone con disabilità l’accesso alla villa comunale “Torre di Federico” in un orario regolamentato, su prenotazione e con la presenza di un accompagnatore opportunamente identificato.

La lettera

“Riteniamo che la sua posizione – scrivono in una lettera al Prefetto i presidenti Milazzo e La Martina – derivi dalla possibilità che si formino assembramenti fra le poche persone che, di mezz’ora in mezz’ora, secondo quanto regolamentato del sindaco, possano passeggiare fra i viali del parco e, quindi, dalla sua presa a cuore della salute dei componenti la nostra comunità cittadina – continuano -. Le parliamo a nome dei soci di due associazioni di genitori di figli disabili, pensando di interpretare anche il pensiero di altri genitori che, come noi, hanno accolto un figlio con un handicap”.

Il particolare momento

In un momento estremamente delicato come quello attuale, in cui il mondo intero si è scoperto fragile, non assicurare questa opportunità a chi già vive una condizione di particolare fragilità psico-fisica può avere ricadute non indifferenti con tutto ciò che esse cvita21omportano. Da queste esperienze di vita vissute nella quotidianità complessa e ancor più complicata già nell’ordinario deriva, quindi, l’accorato appello delle due associazioni al Prefetto Pirrera: “la invitiamo a rivedere la sua posizione ed a dare credito a questi genitori che, ben consapevoli dell’opportunità, manterranno ben oltre le regole le dovute distanze all’interno della villa – sono le parole dei presidenti -. L’appuntamento con mezz’ora d’aria potrebbe servire a migliorare lo stato delle nostre famiglie e dei nostri figli, ai quali è difficile spiegare il motivo della forzata permanenza a casa. Siamo certi che potrà immaginare il gravissimo stato di disagio, nel quale versano alcuni di essi – concludono -. Una sua posizione avversa all’ordinanza lo aggreverebbe, accentuando, purtroppo, la distanza dalle Istituzioni che, a volte, chi vive una disabilità è costretto a constatare”.

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Hand in cap (Dott.M.Milazzo)

Breve racconto autobiografico per la festa del papà

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Non ho mai portato baffi né coppola e le foto antiche che ritraevano madri in piedi dietro austeri padri seduti, circondati da tre, quattro figli maschi con le figlie femmine messe ai margini, mi hanno fatto sempre sorridere e riflettere sui tempi passati: allora il figlio uomo rivestiva valore superiore per il fatto che garantiva la continuità della stirpe e la prosecuzione del lavoro nei campi o nelle officine, entrambi motivi legati, in qualche modo, alla sopravvivenza.

Ma quando un’ecografia ci informa che nella primavera del 2008, a distanza di undici anni dall’ultima di tre figlie, avremmo ripreso ad acquistare pannolini non più con i disegnini rosa, devo ammettere che ho gioito pur considerando i rischi di una gravidanza di genitori più vicini ai cinquanta che non ai quarant’anni.

Altro effetto collaterale del referto è stato quello di fare scattare in me un mal controllato meccanismo chiamato “aspettativa”. L’aspettativa può essere un tipo di attesa profonda e leggera, ma può essere vissuta come pesante e vincolante, che grava su di noi inchiodandoci nel modo in cui gli altri ci vedono ed in cui noi stessi ci vediamo, togliendoci quindi libertà di visione e di scelte.

Sono l’unico fratello maschio insieme a due sorelle femmine e mio padre è figlio unico: il mio prossimo nascituro è quindi l’unica possibilità di non fare morire il mio cognome. Maschio e magari medico anche lui, come il nonno e il padre. Erano pensieri che affioravano, non lo nascondo, alimentando in me aspettative.

Nasce Stefano. Diagnosi di sindrome di Down quasi immediata. Ci sono voluti giorni, forse mesi, ci è voluta la mia famiglia, i miei amici, le mie radici cristiane, ma soprattutto ci è voluta la sua presenza nella mia vita per capire che lui non era il problema ma la soluzione, come può succedere per una medicina miracolosa che risolve una patologia grave senza provocare effetti collaterali.

Stefano guarisce la mia ammalata identità di genitore perché con lui la mia paternità si realizza in tutta la sua pienezza diventando libera, finalmente: le aspettative scompaiono per lasciare il posto al figlio generato non in quanto proiezione di me stesso ma in quanto persona con la sua identità, il suo progetto, il suo potenziale. E se un vero padre deve vivere perché il figlio realizzi il suo progetto di vita, con lui divento compiutamente padre.

C’è di più: questo figlio fa crollare le aspettative riposte nel progresso sociale e nelle scoperte scientifiche. Un contesto social-scientifico che ti invita quanto meno a prendere in considerazione la possibilità di non far nascere Stefano (ricordo la risma di documenti firmati per liberare medici e Stato dalla responsabilità di avere rifiutato l’amniocentesi per eventuali fini abortivi) quanto meno deve avere qualche falla.

Ancora. Stefano ci guida nel mondo della disabilità aiutandoci a scoprire che ciò che accomuna abili e disabili è il sentirci inadeguati di fronte al non previsto, al diverso e al bisogno di abilità. Ma lui è un esempio di realizzazione ed è perfettamente felice così come è. Se ne infischia dei buoni esempi: ha un progetto e vuole che si realizzi quello, non un altro. Dice Einstein: “Se chiedi ad un pesce di salire su un albero lui crederà per tutta la vita di sentirsi uno stupido”.

I figli disabili sono un’accusa formidabile contro il cliché dell’uniformità, contro la stupidità umana che affiora storicamente in tempi diversi ed in modi sempre nuovi, nel mito dell’essere perfetto, del corpo perfetto, degli occhi perfetti, della camminata perfetta.

Loro, inevitabilmente, entrano a far parte delle nostre comunità per far sbilanciare, da un lato, tutte le nostre certezze consolatorie su cui si fonda la comune visione del mondo e per renderci invece stabili, dall’altro, in quello che è il valore della persona: un essere-costruttore di relazioni autentiche fondate sulla reciprocità più disinteressata, che permette a ciascuno di liberamente amare e liberamente essere amati.

Scritto dal padre di un figlio disabile e dedicato a tutti i genitori.

Marco Milazzo – ass.vita21enna@gmail.com

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