In Evidenza
Placido Domingo al Teatro Massimo di Palermo
Sabato 19 febbraio l’atteso debutto di Placido Domingo al Teatro Massimo di Palermo con Simon Boccanegra nello storico allestimento firmato da Sylvano Bussotti. Repliche fino al 27 febbraio. Sabato 19 febbraio alle 20:00 ancora un capolavoro verdiano sul palcoscenico del Teatro Massimo: il debutto palermitano di una star internazionale come Placido Domingo nella parte di Simon Boccanegra, uno dei ruoli che più gli sta a cuore e che gli ha aperto le porte del repertorio baritonale. L’opera verrà presentata nello storico allestimento del Teatro Regio di Torino con regia, scene e costumi di Sylvano Bussotti, il grande compositore recentemente scomparso, a cui il Teatro Massimo rende omaggio. L’allestimento di Bussotti è ripreso dal regista Paolo Vettori. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Massimo diretto da Marco Betta dirige il Maestro Francesco Ivan Ciampa (19, 23, 27) che affianca regolarmente i più grandi nomi della lirica internazionale e il Maestro Jordi Bernàcer (20, 22) che con Placido Domingo ha un lungo sodalizio professionale avendolo diretto in numerose opere e concerti. Nel ruolo di Boccanegra, oltre a Domingo, canta anche Gabriele Viviani (nel cast alternativo, 20 e 22 febbraio). Il giovane e già affermato soprano Anastasia Bartoli sarà Amelia, ruolo interpretato da Serena Gamberoni nel secondo cast. Nel ruolo di Gabriele Adorno torna al Teatro Massimo il grande tenore messicano Arturo Chacón Cruz che proprio vincendo il concorso Operalia fondato da Placido Domingo ha iniziato la sua carrier
di successo. Lo stesso ruolo, nel secondo cast sarà ricoperto dal tenore azero Azer Zada, formatosi all’Accademia del Teatro alla Scala. I bassi Marko Mimica e Rafal Siwek saranno Jacopo Fiesco, mentre Marco Caria è Paolo Albiani e Luciano Roberti Pietro. Completano il cast Domenico Ghegghi, Marco Antonio Pastorelli e Mariella Maisano. Maestro del Coro Ciro Visco. Le luci sono di Vincenzo Raponi. Repliche fino al 27 febbraio. Simon Boccanegra è oggi unanimemente considerato uno dei capolavori della drammaturgia musicale di Verdi. L’opera, scritta nel 1857 dopo Les Vêpres Siciliennes, ebbe un percorso travagliato prima di giungere al successo. Il libretto di Francesco Maria Piave era ispirato all’omonimo dramma di Antonio Garcìa-Gutiérrez (lo stesso autore de Il trovatore) ma il debutto al Teatro La Fenice di Venezia e poi al Teatro alla Scala fu davvero poco fortunato e l’opera fu a lungo dimenticata. Dopo oltre vent’anni Verdi la rivide, in collaborazione con Arrigo Boito che modificò il libretto, aggiungendo in particolare il finale del primo atto. In questa nuova veste Simon Boccanegra debuttò al Teatro alla Scala nel 1881 con il successo trionfale che ancora oggi lo accompagna.
L’opera si sviluppa in un prologo e tre atti e vede la prevalenza di voci gravi, con ben cinque personaggi maschili (di cui solo uno interpretato da un tenore) e un unico personaggio femminile. È ambientata a Genova nel Trecento e racconta, sullo sfondo di intrighi politici e scontri di classi sociali, il dramma privato di un padre che ritrova la figlia che credeva perduta; ma racconta anche dei conflitti intestini, con la figura altissima del protagonista, uno dei personaggi in cui Verdi maggiormente trasfonde i propri ideali. Una vicenda complessa, nello stile intricato di Gutierrez, che ha per protagonisti personaggi storici realmente esistiti, a partire da Simon Boccanegra, primo doge di Genova, eletto dal popolo nel 1339 e contrastato dalla classe nobiliare. Placido Domingo ha ricoperto il ruolo di Simon Boccanegra nei più importanti teatri del mondo, dal Teatro alla Scala al Metropolitan di New York, e ancor prima di interpretare il personaggio di Simone da baritono ha cantato con grandissim
o successo anche la parte del tenore Gabriele Adorno della stessa opera. Artista eclettico e “Ambasciatore della cultura spagnola nel mondo”, prosegue la sua straordinaria carriera da oltre mezzo secolo nei principali teatri internazionali. Ha in repertorio oltre 150 ruoli e ha al suo attivo più di un centinaio di incisioni, oltre 50 video e ben 12 Grammy Awards.Parallelamente al canto si esibisce come direttore d’orchestra e ha diretto oltre 600 tra spettacoli d’opera e concerti sinfonici con le orchestre più prestigiose. Al Teatro Massimo di Palermo dopo l’interpretazione di Boccanegra lo vedremo anche sul podio dell’Orchestra e del Coro del Teatro Massimo per dirigere martedì 1 marzo alle 20:30 il concerto “Noche Española” con il tenore Arturo Chacón Cruz e la storica stella del flamenco Lucero Tena alle nacchere. Musiche di Ruperto Chapí, Manuel de Falla, Enrique Granados, Isaac Albéniz, Tomás Bretón, Gerónimo Giménez, Reveriano Soutullo / Juan Vert, José Serrano, Federico Moreno Torroba, Jacinto Guerrero, Francisco Alonso, Amedeo Vives, Manuel Fernandez Caballero. Maestro del Coro Ciro Visco. Biglietti: Simon Boccanegra da 150 a 15 euro; Noche Española: da 60 a 15 euro. Domenica 27 febbraio, alle 17:30 in Sala degli Stemmi, durante lo svolgimento dell’opera avrà luogo anche il laboratorio Simon Boccanegra ovvero “La figlia del corsaro”, dedicato a bambine e bambini tra i 6 e i 10 anni che al termine del laboratorio assisteranno all’opera in Sala grande per vivere la magia del Teatro. Testi e narrazioni di Francesca Cosentino, interventi cantati di Sonia Sala, animazione teatrale di Marcella Vaccarino e illustrazioni di Giuseppe Lo Bocchiaro. Info e prenotazioni 329 7260846. Date e Turni Simon BoccanegraSabato 19 febbraio Turno Prime ore 20:00 Primo castDomenica 20 febbraio Turno Opera ore 18:30 Secondo castMartedì 22 febbraio Turno Scuola ore 18:30 Secondo castMercoledì 23 febbraio Turno F ore 20:00 Primo castDomenica 27 febbraio Turno D ore 17:30 Primo cast Noche EspañolaMartedì 1 marzo ore 20:30
Ufficio StampaFondazione Teatro MassimoGiovannella Brancato+39 340 8334979giobrancato@teatromassimo.it
Cinema
Days of Heaven di Terrence Malick
Se il desiderio di tutta una vita è la felicità per sé e per i propri cari, quanto saremmo disposti a sacrificare, sia materialmente che moralmente, per soddisfare quel desiderio? Dov’è il confine che demarca il punto in cui i nostri sforzi non sono più sensati, trasformati in ciclico processo di rancore e sopraffazione morale? Che senso ha avuto quella vita, sempre che ne abbia mai avuto uno? Se queste domande risuonano spirituale è perché lo sono, e Terrence Malick è il regista perfetto per tradurre questa visione in immagini, più che in parole, perché il cinema del cineasta americano – in una carriera molto particolare e costellata di progetti irrealizzati – è semplicemente unico nel modo in cui comunica.
L’uso delle immagini
Basta guardare all’uso delle immagini sin dall’inizio di questo go del 1916. Subito dopo, la contrapposizione: distese infinite di grando nelle campagne rurali del Texas, un fu selvaggio West che si staglia sconfinato all’orizzonte. In mezzo troviamo Bill, la compagna Abby e la sorella Linda, desaparesidos in cerca di una vita migliore dopo anni di fatiche.
L’incipit
Ad un primo sguardo l’incipit di Days of Heaven può sembrare semplice, e anche il suo sviluppo potrebbe essere considerato semplice: tra orari interminabili a raccogliere grano insieme a centinaia di braccianti, Abby colpisce dritto nel cuore di Chuck, il timido proprietario della fattoria e afflitto da un male sconosciuto che apparentemente gli lascia poco da vivere. In quell’anima privilegiata ma contemporaneamente plagiata dai mali del corpo umano che ha messo i suoi occhi su Abby, Bill vede la possibilità di vivere la vita che hanno sempre sognato. Sposando Chuck, a Abby basterà solo aspettare che la natura faccia il suo corso permettendo a lei, Bill e Linda di ereditare le sue fortune.
Un sentiero inevitabilmente oscuro, rischioso soprattutto a livello umano: sacrificare il proprio amore, in totale abnegazione dei propri sentimenti – cosa peraltro già messa in atto, dato che Bill e Abby fingono di essere fratello e sorella per evitare chiacchere – pur di ottenere l’accesso ad una vita tanto desiderata. Ma un piano del genere non potrà mai essere semplice, né tantomeno fattibile senza dare via qualcosa, ed in questo caso è la purezza d’animo che viene sacrificata in nome di qualcosa di terreno, effimero se comparato alla grandezza e alla potenza dell’amore, che avrebbe potuto resistere ad ogni asperità, e che invece viene svenduto dietro la chimera di un trionfo. Ma sarà l’amore stesso a ridare la stessa moneta ai nostri protagonisti.
L’atmosfera e i luoghi
L’elemento più affascinante della visione di Malick in Days of Heaven è il come questa progressione non avvenga mai con fatti propriamente espliciti, con interazioni tra i protagonisti. L’atmosfera e i luoghi del film sono parte integrante del cast, si amalgamano con essi per riflettere spiritualmente le loro vicende e i loro stati d’animo. E quando quest’ultimi diventano avversi, anche i luoghi lo diventano, facendosi simbolo del turbamento e del Male che lentamente si insidia tra queste persone. Tutto questo dentro una pellicola che, come si può già intuire, dietro un semplice triangolo amoroso nasconde un simbolismo spirituale e religioso estremamente marcato.
Impossibile non ritrovare nelle radure incontaminate e in questi immensi campi degli espliciti rimandi biblici, dove la natura ancora solo sfiorata dalle tecnologie umane parla con i suoi movimenti silenziosi nel ruolo di una terra promessa, l’Eden, meta ultima di persone senza storia, senza passato (o che vogliono lasciarselo alle spalle come Bill), ma che, come nel mito di Adamo ed Eva, viene macchiato dal peccato. Chiaramente Malick esplora queste analogie in maniera molto sottile e con un taglio molto naturalistico, ma quello appena descritto può rendere almeno in parte l’idea di ciò che si vedrà a schermo, ma Days of Heaven è un’esperienza cinematografica innanzitutto da vivere, in cui immergersi nelle sue immagini.
La fotografia
La fotografia di Nestos è una delle più belle che io abbia mai visto, e sorprende come lui stesso fosse afflitto da una parziale cecità durante le riprese, operando spesso in maniera spontanea e dalle indicazioni dei suoi assistenti, ricorrendo tantissimo all’uso delle luci naturali. Il risultato è magnifico, spettacolare ma mai magniloquente, semmai spontaneo, naturale, con la camera che sembra spesso poggiarsi su questi paesaggi in totale contemplazione, anticipando di trent’anni ciò che Malick compirà, con migliori mezzi tecnici, in opere come The New World e soprattutto The Tree Of Life.
Qui però si potrebbe dire che il regista trova una coniugazione stilistico-visiva perfetta, che si colloca tra il cinema più diretto ed inevitabilmente influenzato dalla New Hollywood di Badlands e l’astrattismo concettuale che si vedrà poi in The Tree Of Life. Le immagini parlano ma non disperdono mai la narrazione, la inglobano facendosi sfondo e comprimario degli sguardi dei protagonisti, dei baci rubati e delle parole non dette che intercorrono tra Bill, Abby e Chuck.
Gli attori
Nonostante Malick volesse all’inizio Dustin Hoffman o John Travolta nel ruolo di Bill, la performance di un allora sconosciuto Richard Gere funziona alla perfezione grazie a quello sguardo che da un lato è quasi infantile, puro, dall’altro è sospettoso, come se ci fosse sempre qualcosa che si nasconde in quel sorriso, in quel suo essere affabile per un personaggio che da dei sentimenti sinceri si macchia di un irreparabile opportunismo, dividendosi tra la necessità di portare avanti il “piano” e la gelosia nei confronti di Chuck ed Abby, interpretata da un’ottima Brooke Adams.
Chuck è anch’esso un personaggio molto particolare, silenzioso, quieto osservatore che scruta Abby cercando costantemente di entrare nella sua anima anche dopo il matrimonio, dove lei mantiene una certa distanza. Un uomo gentile, lontano dai soliti stereotipi dei proprietari terrieri, che cerca disperatamente una connessione in una vita solitaria e che sembra destinata a terminare prematuramente. Ma anche lui, davanti alle sconnessioni di questo triangolo indecifrabile, si macchia di peccati, e le sua benevolenza conosce un limite che però non sembra capace di rompere del tutto.
Days Of Heaven è una delle visioni più appaganti e intriganti degli anni ’70 e del cinema tutto, solo in apparenza semplice ma capace di comunicare solo con le immagini e la natura immensi messaggi sulla composizione umana e morale dell’uomo, della meccanica dei nostri sentimenti e cosa accade quando li mettiamo verso strade sbagliate. Non un’apologia alla religione quanto più un’allegoria che immagina una storia dai contorni biblici.
Eventi
Sherbeth, a Palermo la festa del gelato
Il capoluogo siciliano è pronto ad accogliere la 17ª edizione di Sherbeth, il Festival Internazionale del Gelato Artigianale, in programma da venerdì 7 a lunedì 10 novembre 2025.
“L’innovazione è una tradizione” è il payoff dell’edizione 2025, che racconta il rispetto per le radici e la cultura artigianale, ma con lo sguardo rivolto a tecniche innovative, contaminazioni culturali e nuove frontiere del gusto.
Ed è proprio in questo filone che si inserisce uno dei momenti più attesi del Festival, il Premio Procopio Cutò, riconoscimento che celebra ogni anno l’eccellenza, la creatività e l’innovazione nel mondo del gelato artigianale.
Un’eredità che attraversa i secoli
La figura di Francesco Procopio Cutò è profondamente legata alle origini del gelato artigianale e alla sua diffusione in Europa. Nato a Palermo nella seconda metà del Seicento, Procopio portò la sua arte a Parigi nel 1686, dove aprì il celebre Café Le Procope, luogo in cui rese il gelato, fino ad allora dolce dei ricchi, un dolce democratico e alla portata di tutti.
Grazie al suo talento Procopio ottenne dal “Re Sole” Luigi XIV la “patente reale”, che lo rese produttore esclusivo di gelato artigianale. La capitale francese divenne così la culla europea del gelato, ereditando una tradizione che affonda le radici nella Sicilia del Seicento.
È proprio a questo legame storico che Sherbeth rende omaggio con un premio intitolato al patron dei gelatieri: «Sherbeth nasce con lo scopo di diffondere nel mondo il valore di una tradizione che ha radici profonde a Palermo», spiega Davide Alamia, organizzatore del Festival. «Procopio Cutò è il simbolo dell’identità di Sherbeth, perché è stato il primo ad esportare, a Parigi, il gelato della sua tradizione familiare, facendolo conoscere al mondo. Sherbeth vuole continuare questo viaggio, facendo sì che il termine “gelato” sia riconosciuto in tutti i continenti come eccellenza italiana e non venga tradotto, al pari della pasta o della pizza».
Un premio dedicato all’originalità
I partecipanti presenteranno un gusto inedito, ideato appositamente per il concorso. Il tema è libero e lascia spazio alla creatività dei maestri, che utilizzeranno materie prime di alta qualità e tecniche innovative per reinterpretare la tradizione e spingere sempre oltre i confini del gelato artigianale.
A decidere chi salirà sul podio del Premio Francesco Procopio Cutò sarà una giuria tecnica d’eccezione, composta da Bang Gai, gelatiere cinese e Presidente Onorario in quanto vincitore dell’edizione 2024, dalla Presidente Amanda Dupas de Matos (ricercatrice presso Massey University, Nuova Zelanda), e dai componenti Stefano Predieri e Massimiliano Magli (CNR Bologna), Barbara Alfei (Capo Panel AMAP Marche) e Maria Mora Gijon (ricercatrice al Basque Culinary Center, Spagna).
Una giuria di giornalisti, critici enogastronomici e comunicatori assegnerà invece il Premio della critica. A loro spetterà il compito di premiare il gusto più identitario e innovativo.
La Giuria Critica sarà formata da: Paolo Marchi (giornalista, ideatore di Identità Golose), Jaclyn DeGiorgio (giornalista), Tania Mauri (giornalista), Massimiliano Tonelli (direttore di CiboToday), Megumi Ueda (giornalista) e Chiara Cavalleris (direttrice di Dissapore).
Bang Gai, il primo vincitore non italiano
L’edizione 2024 ha segnato un momento storico per Sherbeth: Bang Gai, maestro gelatiere cinese e proprietario della gelateria “Sette” di Hangzhou insieme alla moglie Ivy Li, ha conquistato la giuria con il suo gusto “Lemon Tree”.
Dopo aver scoperto la sua passione per il gelato in Italia, Bang Gai è tornato in Cina per aprire la propria gelateria, dove i suoi gusti raccontano l’equilibrio tra la sensibilità orientale e la tradizione artigianale italiana.
Un premio tra tradizione e futuro
Ogni anno il Premio Procopio Cutò si conferma un’occasione di confronto tra culture e visioni diverse, all’interno del quale la qualità e la passione per l’artigianalità diventano linguaggio comune. «Perché il gelato non è un mix di ingredienti dentro un miscelatore, ma un racconto fatto di tradizioni, di territori e di storie fatte da persone», conclude l’organizzatore Davide Alamia.
Informazioni utili
Date: 7 – 10 novembre 2025
Luogo: Piazza Verdi, Teatro Massimo – Palermo
Programma completo e accrediti stampa: www.sherbeth.it
Cinema
A House of Dynamite
Viviamo in un’epoca di grandi crisi mondiali, tanto sociali quanto geopolitiche. Le stabilità di un tempo – sempre che siano state reali – adesso si muovono tra animi sempre più distorti, e le legittime rivendicazioni della società civile contro le atrocità del mondo rendono ancora più lampante la spaccatura tra politica e realtà. Non può che essere quindi rinfrescante ritrovare una cineasta come Kathryn Bigelow, tra i volti più politici e forse per questo sottovalutati del cinema americano, oltre che prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con quel ritratto crudo e inquietante della guerra che era The Hurt Locker (2010).
Kathryn Bigelow
Otto anni dopo l’ultimo film, Detroit del 2017, la Bigelow ha calcato il palco dell’appena passata Mostra del Cinema di Venezia con A House of Dynamite, un’opera mai come ora attuale, ma che si muove intelligentemente nel suo raccontare una storia spaventosamente vicina e verosimile senza sporcare la sua narrazione di dettami politici. E lo fa in una delle maniere più semplici eppure antitetiche possibili: raccontare attraverso tre punti di vista differenti le procedure di reazione degli Stati Uniti ad un imminente (e presunto) attacco missilistico, che in 20 minuti colpirà il suolo americano.
Scenari di guerra
Normalmente un incipit come questo sarebbe una gallina dalle uova d’oro per il cinema più becero e propagandistico che solo gli USA sanno fare, ma ci troviamo davanti alla Bigelow, che non è una regista sprovveduta né tantomeno piena di simpatie per gli americani, e quindi imbastisce una pellicola dal realismo strabiliante, colma di procedure, protocolli, acronimi, il tutto svolto all’interno dei complessi apparati istituzionali atti a rispondere a situazioni del genere. Perché è bene ricordare che, per quanto ci piace pensare che i peggiori scenari siano soltanto nella nostra fantasia, le nazioni sono estremamente preparate per momenti del genere.
E non stiamo parlando di fantapolitica o distopia in stile Fallout, perché le informazioni geopolitiche che ci vengono date qua e là sono più che verosimili, anzi, stupisce come tutto questo accada, almeno nelle fasi iniziali, nell’indifferenza generale, un fulmine a ciel sereno che cala nella normalità del quotidiano e che col passare dei minuti si fa sempre più spazio nelle persone. Ma i primi stessi a gestire con stupore un momento del genere sono gli apparati stessi, dimostrandoci che anche le più avanguardistiche misure di difesa possono fare relativamente poco nei confronti dell’emotività umana.
Effetti speciali
Anche i più esperti membri di questi apparati non possono che farsi prendere dalle emozioni in un momento così catartico e rapidamente in discesa, e ciò viene fatto con un’attenta direzione registica che si rifà molto a quella della serie televisiva capolavoro Succession: camera quasi sempre a mano, movimenti nervosi con un taglio quasi documentaristico, da reporter d’assalto, e soprattutto un uso continuo di claustrofobici crash zooms, che marcano stretti i protagonisti per mostrarli nella loro vulnerabilità, che attenzione non è sintomo di incompetenza, ma di umana reazione a qualcosa che mai avremmo voluto accadesse, mentre delle musiche di Volker Bertelmann acuiscono ulteriormente questa tensione.
Che sia il capitano Olivia Walker nella Situation Room della Casa Bianca, o il comando di Fort Greely, o il Segretario della Difesa fino ad arrivare al Presidente degli Stati Uniti, quello che non cambia è la propensione alle emozioni, a quel fardello di dover prendere delle decisioni precise in un momento di così alta tensione, il tutto senza nessuna epica: non ci sono generali guerrafondai e reazionari, pronti a difendere l’onore della nazione, né tantomeno ci sono eroi che si ergono a salvatori. Ci sono solo persone tutto sommato “comuni” che svolgono le loro prassi, e che si ritrovano a coordinarsi insieme per trovare una risposta univoca prima di dare la decisione finale al Presidente.
Le decisioni del Presidente
Da notare quindi come venga dato spazio a tutto un personale specifico e raramente raccontato nelle filmografie del genere, ricostruendo una gerarchia di esperti che va poi a riferire in ultimo al Presidente, interpretato da un ottimo Idris Elba e a cui viene dedicato solo l’ultimo segmento dei tre in cui è diviso il film. Se da un lato è il segmento più traballante a livello narrativo, in cui ci sono delle scelte un pochino strane, questo è anche il punto più interessante di tutta la pellicola, dove innanzitutto viene rimarcata una cosa che spesso sfugge: il Presidente, e questo penso accade per tutti i Capi di Stato, è una persona idealmente competente, ma che per decidere è affiancato da un numero spropositato di esperti e consiglieri specializzati nei campi di loro competenza.
Compito del Presidente è prendere atto delle valutazioni dei propri consiglieri e in base a queste decidere cosa sia meglio nell’interesse della nazione. Ciò significa quindi che il Presidente è allo stesso bivio umano di tutti coloro che lo affiancano, con la differenza che porta il fardello più grande di tutti, non è diverso da nessuno nel ritrovarsi ad affrontare ciò che fino a pochi minuti prima sembrava impensabile. Questo innesca una dinamica che forse può sembrare anche assurda, ma che rientra in quello che è un approccio umano, e quindi per sua natura fallace.
Il cast
In mezzo a tutto questo trambusto si eleva un cast fatto di interpreti di grande qualità ma scelti con una grande cura, senza considerare particolarmente il divismo: Elba, Rebecca Ferguson, Tracy Letts (solidissima presenza fissa in ruoli secondari), Anthony Ramos, Greta Lee, Gabriel Basso, Jared Harris, Moses Ingram e Jason Clarke per un film fatto, di dialoghi, di supposizioni, di scelte da compiere velocemente in mezzo al panico, dove ogni parola fuori posto, ogni frase strozzata dall’emozione può cambiare totalmente la scelta di una o l’altra soluzione.
La Bigelow umanizzando questi eventi vuole farci comprendere che forse la cosa di cui dobbiamo avere più paura, più delle guerre, più delle tecnologie e degli armamenti, siamo noi umani, che ci armiamo allo sproposito per una guerra che ci raccontiamo non arriverà mai, ma per cui siamo sempre spaventosamente pronti militarmente ma umanamente ancora no e probabilmente mai lo saremo – forse non dovremmo proprio esserlo, mentre il mondo diventa una casa piena di dinamite, pronta ad esplodere come una polveriera. E il finale, nel suo essere anticlimatico, non è frustrante come si sta dicendo in rete, è inquietante: non vuole dare risposte proprio perché vuol chiedere a noi qual è finale che abbiamo da scrivere per l’umanità, quella vera.
Conclusioni
È il film migliore di Kathryn Bigelow? Probabilmente no, ma un tassello fondamentale nell’attualità di oggi per fermarci e spingerci a riflettere su cosa stiamo facendo del nostro mondo, ipotizzando con estremo realismo uno scenario verosimile, intrinsecamente e pericolosamente umano, che esula dalle ideologie lasciando solo la nostra nuda vulnerabilità.
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