Editoriali
Programmare il lavoro attraverso i fondi europei
I Fondi strutturali europei e la futura Programmazione europea 2021-2027 sono gli assi su cui incardinare le politiche a sostegno dei giovani e della famiglia.
Già in Italia altre regioni come il Friuli Venezia Giulia, hanno iniziato ad elaborare tutta una serie di documenti programmatici, molti dei quali emersi al termine degli Stati Generali della famiglia.
La Sicilia come volano
La Sicilia potrebbe dunque prendere esempio dalle buone pratiche di regioni più virtuose. Mi ha molto colpito il tema di una delle conferenze che ha visto riunire attorno a un importante tavolo di lavoro, associazioni di volontariato, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni sindacali e del terzo settore, discutere sul tema: “Povertà ed esclusione sociale. Generare futuro a partire dai giovani”. L’obiettivo è quello di mitigare l’impatto della crisi sui giovani.
Secondo l’assessore alle finanze della regione Friuli “è imprescindibile un confronto con i nostri giovani per inserire nella nuova Programmazione europea le migliori pratiche avviate finora da giovani lavoratori e amministratori locali per costruire strumenti che abbiano un’efficacia di medio-lungo termine, con un orizzonte che comprenda almeno i prossimi 10-20 anni del futuro della nostra regione”.
Ciò che colpisce da questa programmazione e che soprattutto in Sicilia e nell’entroterra troverebbe terreno fertile è quella di lasciare ai giovani la scelta degli interventi da realizzare, decisione che é stata ripagata da progetti innovativi di qualità. Quando si parla di ostacoli che impediscono l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, inevitabilmente l’attenzione cade sulla famiglia e sui mancati progetti di costruzione e di futuro.
Le fasce più deboli
Le face più deboli e vulnerabili riguardano in primis i giovani, le donne che hanno avuto figli e che arrancano nel reinserimento nel lavoro e la fasce dei quarantenni costretti ad andare in cassa integrazione che non riescono a ricollocarsi. Secondo una ricerca dell’Istat, oggi la metà delle donne con due o più figli fra i 25 e i 64 anni non lavora. Inoltre una coppia su tre con figli lavora solo l’uomo. Addirittura in quattro coppie su dieci in Meridione lavora solo l’uomo, contro il 27% del centro e il 25% del nord. Va precisato che questa quota, dopo aver subito una flessione negativa negli anni di crisi, è tornata a salire nel periodo più recente.
A lavorare di meno sono le donne meno istruite e quelle che hanno due o più figli. La cosa sconfortante è che le donne con meno di 49 anni con figli sono ancora meno indipendenti delle colleghe più anziane. La giornalista Cristina Da Rold sul sole 24 ore scrive: Come si può pensare di emancipare le famiglie dalla povertà se fare un figlio significa immobilità proprio per la donna, specie per quella che non ha studiato e che dunque ha meno possibilità di scelta di una persona che invece possiede un titolo di studio? Non fraintendiamo: alle laureate non va comunque benissimo, che abbiano figli oppure no. Solo la metà delle madri laureate oggi lavora a tempo pieno, contro il 60% delle laureate senza figli. Certo, si tratta di percentuali altissime rispetto alle madri con titoli di studio inferiori: lavora infatti il 14,5% delle ragazze con al massimo la licenza media e il 28,6% delle diplomate”.
Arianna
Calo demografico, studenti sempre più “lost”
Tra 10 anni ci saranno un milione e mezzo di studenti in meno, è quanto pubblicato nei giorni scorsi dall’autorevole quotidiano Corriere della Sera sulla crisi demografica. L’articolo riprende la lettera scritta nell’aprile di quest’anno da un gruppo di ragazzi del Liceo Berchet di Milano, in cui chiedevano aiuto ai professori e alla scuola dopo il lockdown. 56 loro compagni si erano ritirati, in difficoltà a riprendere a vivere e studiare come prima. L’inchiesta del giornale, in più puntate, denominata Il male di vivere ha messo in luce come in realtà il lockdown avesse amplificato un disagio che viene da più lontano e che coinvolge, insieme ai figli, anche i genitori, gli insegnanti e più in generale il mondo degli adulti. Ma a farne le spese sono proprio loro: i giovani. Più di 150 anni fa lo scrittore Tolstoj, uno dei più grandi narratori della letteratura russa e docente attento e appassionato, aveva intuito quanta importanza ha la scuola per le generazioni che saranno e quelle che dovranno ancora essere. Riprendo una parte del suo discorso: “…sono convinto che la scuola non debba immischiarsi nel processo educativo, che è compito esclusivo della famiglia, che la scuola non debba premiare e castigare e non abbia diritto di farlo, che la migliore sorveglianza e il miglior modo di amministrare la scuola consistano nell’offrire agli allievi piena libertà di studiare e organizzarsi come vogliono”. Lo diceva un secolo fa e oggi avrebbe avuto reazioni diverse sia dalla famiglia che dalla scuola. Unanimità di intenti nel non distrarre i fondi che si risparmieranno con il calo degli studenti, gli esperti suggeriscono di usarli tutti per mettere mano a cambiamenti di organizzazione e di strategia didattica che sono a portata di mano. A partire dalle proposte di ripensamento dell’orario scolastico di medie e superiori, inutilmente compresso al mattino col risultato di caricare i ragazzi di compiti che, oltre ad aumentare i vantaggi e gli svantaggi di partenza tra gli studenti, ormai vengono sempre più spesso scopiazzati in rete. È il momento di portare avanti le sperimentazioni didattiche che in tante scuole italiane già si fanno con entusiasmo e soddisfazione di tutte le parti, ma che faticano a diventare sistema. Secondo le statistiche in possesso del Ministero dell’istruzione, c’è una percentuale preoccupante, il 12,7 per cento degli studenti abbandona la scuola prima del diploma. Secondo le autrici dell’articolo, Gianna Fregonara e Orsola Riva, “sono ormai quasi vent’anni che il Parlamento e il Consiglio dell’Unione europea hanno individuato quelle che ritengono essere le competenze chiave per il Ventunesimo secolo, a partire da quella capacità di «imparare a imparare» che è diventata imprescindibile in un mondo che cambia a una velocità sempre più vorticosa. Il concetto di apprendimento continuo però si basa su un paradosso, ovvero sul fatto che la capacità di acquisire nuove conoscenze presuppone quelle vecchie. Detto altrimenti: più si è istruiti più è facile aggiornarsi mentre al contrario chi ha un livello di istruzione più bassa è condannato a restare sempre più indietro”.
Arianna
Fare il genitore è il mestiere più importante del mondo
rirsi – si tratta di uno stato psicofisico che logora la quotidianità. Individuata negli anni Settanta, questa sindrome è stata riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel maggio del 2019. Una indagine del Sole 24 ore, svolta su 1.000 persone, ha fatto emergere che 1 italiano su 2 finisce in burnout nel tentativo di bilanciare carriera e famiglia. Il fenomeno colpisce più le donne (62%) degli uomini (54%) con sensazioni come stanchezza e scoramento, molto spesso accompagnate dal senso di colpa, con punte fino al 65% tra le donne. Secondo i ricercatori che hanno analizzato i dati, trovare il tempo, le energie, la motivazione per svolgere correttamente e con la giusta serenità i propri compiti sul lavoro e a casa, ritagliandosi qualche momento per coltivare relazioni e passioni personali, può diventare una bella impresa. E, proprio alle imprese, genitori e caregiver chiedono aiuto per ritrovare l’equilibrio. Sembra scontato ma poter contare su un maggior supporto per genitori e caregiver da parte del datore di lavoro è desiderio del 61% degli intervistati, in egual misura di uomini e donne. La flessibilità, intesa come possibilità di lavorare da casa o secondo orari elastici, è in cima alla lista dei desideri (43%). Sarebbero molto apprezzati anche la possibilità di beneficiare di maggior tempo libero nel corso dell’anno (34%) e di un congedo parentale retribuito più lungo (32%). L’indagine conoscitiva è partita dopo i report presentati lo scorso 1° giugno, quando si è celebrato il Global day of parents; fare il genitore è il mestiere più importante del mondo. Un lavoratore su quattro, inoltre, vorrebbe poter contare su un sostegno concreto da parte del proprio datore di lavoro, che potrebbe comprendere servizi di assistenza per infanzia sul posto di lavoro, oppure sostegno alle spese per i figli e coperture di emergenza. Ciò che è certo è che le agevolazioni per i genitori e i caregiver sono un fattore decisivo nella scelta del posto di lavoro (68%). Una necessità, questa, non solo italiana, ma condivisa dalla maggior parte delle famiglie nel mondo. In Spagna è stato introdotto nel 2021 e offre 16 settimane di congedo non trasferibili e retribuite al 100% sia alle mamme sia ai papà. Indeed – portale n°1 al mondo per chi cerca e offre lavoro – ha introdotto misure simili anche per tutti i dipendenti a livello globale, con l’obiettivo di creare un ambiente di lavoro più equo e dare supporto. Con la recente introduzione del congedo parentale equivalente per tutti i propri dipendenti, a prescindere dal genere, tutti i lavoratori adesso potranno contare su 26 settimane di congedo continuativo completamente retribuito da utilizzarsi entro il primo anno successivo alla nascita, l’adozione o l’accoglienza del bambino. Inoltre, sono stati introdotti anche quindici giorni di congedo retribuito per coloro che si prendono cura di altri familiari.
Arianna
Insicurezza o incertezza? Aiutiamo i nostri figli
polo della commissione, ma soprattutto l’attenzione nei confronti del maturando. Non è vero che la più importante centrale educativa, dopo la famiglia, vacilli o non sia adeguata alle esigenze del tempo e degli adolescenti. Mi ha colpito la testimonianza di un insegnante che, nella rubrica Credere di Famiglia Cristiana, ha scritto:“Mi capita sempre più spesso di trovarmi davanti a dei giovani molto fragili, o forse semplicemente sensibili, che fanno fatica a vivere il momento della valutazione, quello in cui sono chiamati a dimostrare la loro preparazione. Sebbene in genere, almeno nel mio contesto, non si tratti di situazioni che possono pregiudicare il futuro di una persona, ho l’impressione che gli studenti vivano male le occasioni di verifica, in cui devono essere in qualche modo giudicati”. Le parole del docente, non vi nascondo, mi hanno spinto a una serie di riflessioni sui nostri ragazzi e sulla capacità di accettare le critiche, purchè siano assertive e non demolitive. Il contesto di riferimento è fondamentale; la partita si gioca su come sono stati educati dai loro genitori. Se questi ultimi hanno avuto paura di rimproverarli e di considerarli sempre come i cuccioli da difendere sempre e comunque, nel passaggio difficile e complicato di un giovane dall’adolescenza alla fase adulta, sarà difficile accettare la critica o peggio una bocciatura. Il ragazzo lo prenderebbe come un attacco personale e gravemente offensivo. Si sentirebbe ledere la sua dignità. Il docente intervistato ha inoltre detto che: “…per fortuna ci sono anche genitori che aiutano i figli a guardare con obbiettività ai propri successi, ma anche ai propri limiti, accettando gli eventuali fallimenti. Paradossalmente, è proprio questa consapevolezza cha aiuta a crescere. Nel finale c’è un concetto, da parte del professore, che condivido appieno: “come insegnanti e come genitori, abbiamo bisogno di fare i conti con la nostra insicurezza, con la nostra paura di perdere l’affetto e la stima dei figli o degli studenti, dobbiamo fare i conti con il timore che la nostra immagine possa essere deturpata dai giudizi sulla nostra presunta durezza o insensibilità. In altre parole, nella fragilità e nella debolezza dei nostri ragazzi vediamo, come in uno specchio, il riflesso dei nostri nodi irrisolti. Cominciamo quindi a crescere noi adulti nella nostra autostima e in questo modo potremo accompagnare in modo più onesto e autentico il cammino dei più giovani, senza proiettare su di loro le nostre frustrazioni”.
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