Cinema
Il traditore di Marco Bellocchio candidato agli oscar
Il film si apre con una scena girata in una villa decadente sul mare, e ci ricorda, un pò le immagini del capolavoro di Francis Ford Coppola “Il Padrino”, e un pò lo scenario gattopardesco, che solo Tomasi di Lampedusa seppe descrivere nel suo capolavoro.
Il giorno di Santa Rosalia nel 1980 a casa di Stefano Bontade la famiglia è riunita e una foto di gruppo cristallizzerà un momento che non tornerà più, perché il più sanguinario di tutti, Totò Riina , che si copre la faccia per il flash, aveva già deciso di decimarla.
12 minuti di applausi
52 anni dopo de: “I pugni in tasca” Bellocchio è tornato a maneggiare un argomento, la mafia, anzi “Cosa nostra”, per riprendere una frase dal film, che non è mai finito. 12 minuti di applausi a Cannes per un film purtroppo tradito dalla stessa giuria che non gli ha assegnato neanche un riconoscimento.
D’altronde era immaginabile il verdetto vista la partenza anticipata dalla croisette dello stesso Bellocchio. Il suo è stato un lavoro lungo, certosino, di ricerca nel tratteggiare la complessa e contradditoria figura del primo vero pentito, Tommaso Buscetta, colui che permise ai giudici Falcone e Borsellino, prima di cadere tragicamente per mano della mafia, di portare alla luce l’esistenza della piramide mafiosa, rivelandone i capi, facendoli imprigionare, svelando le collusioni con la politica, e l’esistenza, con Pizza Connection, del traffico di droga con la mafia italo-americana. Marco Bellocchio, Leone d’oro alla carriera alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un regista di razza.
Ha trascorso molti anni a studiare le carte del maxi processo, con i suoi 475 imputati alla sbarra, si è avvalso della consulenza di un cronista di giudiziaria del calibro di Francesco La Licata, scrivendo maniacalmente la sceneggiatura assieme a Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo. La stessa Rampoldi a margine della conferenza stampa di lancio ha dichiarato: ”ci sono voluti più di 2 anni e 11 stesure di copione. Abbiamo ricreato gli eventi della vita di Buscetta per trasformali in tragedia, siamo stati guidati dalla visione e dalle ossessioni di Bellocchio”.
E’ una pellicola che racconta tanto ma chiarisce poco, soprattutto quel complesso e difficilissimo legame tra stato e mafia di cui ancora si discute nelle aule del tribunale di Palermo.
Pierfrancesco Favino è il protagonista ma anche Luigi Lo Cascio e Fabrizio Ferracane, rispettivamente, Contorno e Calò realizzano più pose di tutti. Favino, nell’interpretare magistralmente il ruolo di Buscetta ha ammesso di essere stato affascinato dalla sua vita, “sembra un gangster degli anni ’50, ha detto ai giornalisti, era un playboy, una di quelle facce che segna un’epoca. Ovviamente stiamo parlando di un criminale, però condivido con lui il senso di famiglia, insomma un uomo romantico”. Luigi Lo Cascio, indimenticabile protagonista dei “Cento passi”, riesce a trasmettere un personaggio profondo nell’animo, la violenza attraverso lo sguardo, l’orgoglio della propria sicilianità; parla spavaldo alla corte che lo sta interrogando in un dialetto stretto ed incomprensibile.
Fabrizio Ferracane non smentisce le sue straordinarie doti di attore professionista nell’interpretare il boss Calò, acerrimo nemico di Buscetta, che, nella foto iniziale di famiglia, lo abbraccia promettendo di proteggere i suoi figli quando Buscetta emigra in Brasile ma che poi si rivelerà il sanguinario che li uccide a mani nude. Incarna il criminale di alto bordo che è stato a lungo a contatto con i colletti bianchi ed ha imparato il politichese.
Cristina, la terza moglie di Buscetta, interpretata dall’attrice e modella brasiliana Maria Fernanda Cândido, è una presenza dolce e nello stesso tempo travagliata. Interpreta, durante la latitanza del marito, una scena sensuale apprezzata dalla critica.
Anche il giudice Falcone (Fausto Russo Alesi) è convincente, ad affermarlo la sorella Maria dopo avere visto il film. Sempre bravo l’attore di Paternò, Giovanni Calcagno nei panni del boss Gaetano Badalamenti.
A molti è sfuggita la metafora degli animali che l’autore ha voluto in questo film; ne appaiono 3: la tigre bianca in gabbia (Riina in carcere?), la iena (Provenzano??) e migliaia di topi al buio, metafore dei mafiosi costretti a vivere nascosti.
Ma oltre a tanta ricostruzione fedele della cronaca, nel film di Bellocchio c’è anche qualche scena onirica; Andreotti che esce in mutande dall’atelier del sarto, o l’apparizione dei fantasmi dei figli evocati dai sensi di colpa, e il funerale di Buscetta immaginato da lui vivo.
Colpisce nella sceneggiatura la frase pronunciata dal pentito durante l’interrogatorio: “Dott. Falcone, noi dobbiamo decidere solo una cosa: chi deve morire prima, lei o io”.
Bellocchio lo ha detto in tutte le interviste: “Buscetta nel lungometraggio non è un eroe, è solo un uomo coraggioso che vuole salvare se stesso e i suoi cari”.
Le musiche sono del premio oscar Nicola Piovani, hanno degli innesti perfetti anche quando in un ristorante americano un guitto suona con la chitarra a Buscetta e alla sua famiglia la celebre canzone di Toto Cutugno: “Lasciatemi cantare”, con la storpiatura: lasciatemi cantare, sono siciliano”. C’è anche un’aria di Verdi sparata al massimo, mentre si contano i morti e gli anni di galera. La stessa galera che viene raccontata nel film quando i mafiosi brindano nel carcere dell’Ucciardone alla notizia della morte di Falcone. Bellocchio è stato abile a raccontarla con loro che alzano i calici, le bottiglie di champagne in mano sputando sul vetro della tv che trasmette la foto del giudice assassinato con la moglie e la scorta sull’autostrada di Capaci. Brinda da solo nella sua campagna di Corleone anche il capo dei capi, Nicol Calì, attore messinese, scelto dal regista dopo lunghi ed estenuanti provini e catapultato nel ruolo del sanguinario con gli occhi pieni di una forza pericolosa e animale.
Cinema
Days of Heaven di Terrence Malick
Se il desiderio di tutta una vita è la felicità per sé e per i propri cari, quanto saremmo disposti a sacrificare, sia materialmente che moralmente, per soddisfare quel desiderio? Dov’è il confine che demarca il punto in cui i nostri sforzi non sono più sensati, trasformati in ciclico processo di rancore e sopraffazione morale? Che senso ha avuto quella vita, sempre che ne abbia mai avuto uno? Se queste domande risuonano spirituale è perché lo sono, e Terrence Malick è il regista perfetto per tradurre questa visione in immagini, più che in parole, perché il cinema del cineasta americano – in una carriera molto particolare e costellata di progetti irrealizzati – è semplicemente unico nel modo in cui comunica.
L’uso delle immagini
Basta guardare all’uso delle immagini sin dall’inizio di questo go del 1916. Subito dopo, la contrapposizione: distese infinite di grando nelle campagne rurali del Texas, un fu selvaggio West che si staglia sconfinato all’orizzonte. In mezzo troviamo Bill, la compagna Abby e la sorella Linda, desaparesidos in cerca di una vita migliore dopo anni di fatiche.
L’incipit
Ad un primo sguardo l’incipit di Days of Heaven può sembrare semplice, e anche il suo sviluppo potrebbe essere considerato semplice: tra orari interminabili a raccogliere grano insieme a centinaia di braccianti, Abby colpisce dritto nel cuore di Chuck, il timido proprietario della fattoria e afflitto da un male sconosciuto che apparentemente gli lascia poco da vivere. In quell’anima privilegiata ma contemporaneamente plagiata dai mali del corpo umano che ha messo i suoi occhi su Abby, Bill vede la possibilità di vivere la vita che hanno sempre sognato. Sposando Chuck, a Abby basterà solo aspettare che la natura faccia il suo corso permettendo a lei, Bill e Linda di ereditare le sue fortune.
Un sentiero inevitabilmente oscuro, rischioso soprattutto a livello umano: sacrificare il proprio amore, in totale abnegazione dei propri sentimenti – cosa peraltro già messa in atto, dato che Bill e Abby fingono di essere fratello e sorella per evitare chiacchere – pur di ottenere l’accesso ad una vita tanto desiderata. Ma un piano del genere non potrà mai essere semplice, né tantomeno fattibile senza dare via qualcosa, ed in questo caso è la purezza d’animo che viene sacrificata in nome di qualcosa di terreno, effimero se comparato alla grandezza e alla potenza dell’amore, che avrebbe potuto resistere ad ogni asperità, e che invece viene svenduto dietro la chimera di un trionfo. Ma sarà l’amore stesso a ridare la stessa moneta ai nostri protagonisti.
L’atmosfera e i luoghi
L’elemento più affascinante della visione di Malick in Days of Heaven è il come questa progressione non avvenga mai con fatti propriamente espliciti, con interazioni tra i protagonisti. L’atmosfera e i luoghi del film sono parte integrante del cast, si amalgamano con essi per riflettere spiritualmente le loro vicende e i loro stati d’animo. E quando quest’ultimi diventano avversi, anche i luoghi lo diventano, facendosi simbolo del turbamento e del Male che lentamente si insidia tra queste persone. Tutto questo dentro una pellicola che, come si può già intuire, dietro un semplice triangolo amoroso nasconde un simbolismo spirituale e religioso estremamente marcato.
Impossibile non ritrovare nelle radure incontaminate e in questi immensi campi degli espliciti rimandi biblici, dove la natura ancora solo sfiorata dalle tecnologie umane parla con i suoi movimenti silenziosi nel ruolo di una terra promessa, l’Eden, meta ultima di persone senza storia, senza passato (o che vogliono lasciarselo alle spalle come Bill), ma che, come nel mito di Adamo ed Eva, viene macchiato dal peccato. Chiaramente Malick esplora queste analogie in maniera molto sottile e con un taglio molto naturalistico, ma quello appena descritto può rendere almeno in parte l’idea di ciò che si vedrà a schermo, ma Days of Heaven è un’esperienza cinematografica innanzitutto da vivere, in cui immergersi nelle sue immagini.
La fotografia
La fotografia di Nestos è una delle più belle che io abbia mai visto, e sorprende come lui stesso fosse afflitto da una parziale cecità durante le riprese, operando spesso in maniera spontanea e dalle indicazioni dei suoi assistenti, ricorrendo tantissimo all’uso delle luci naturali. Il risultato è magnifico, spettacolare ma mai magniloquente, semmai spontaneo, naturale, con la camera che sembra spesso poggiarsi su questi paesaggi in totale contemplazione, anticipando di trent’anni ciò che Malick compirà, con migliori mezzi tecnici, in opere come The New World e soprattutto The Tree Of Life.
Qui però si potrebbe dire che il regista trova una coniugazione stilistico-visiva perfetta, che si colloca tra il cinema più diretto ed inevitabilmente influenzato dalla New Hollywood di Badlands e l’astrattismo concettuale che si vedrà poi in The Tree Of Life. Le immagini parlano ma non disperdono mai la narrazione, la inglobano facendosi sfondo e comprimario degli sguardi dei protagonisti, dei baci rubati e delle parole non dette che intercorrono tra Bill, Abby e Chuck.
Gli attori
Nonostante Malick volesse all’inizio Dustin Hoffman o John Travolta nel ruolo di Bill, la performance di un allora sconosciuto Richard Gere funziona alla perfezione grazie a quello sguardo che da un lato è quasi infantile, puro, dall’altro è sospettoso, come se ci fosse sempre qualcosa che si nasconde in quel sorriso, in quel suo essere affabile per un personaggio che da dei sentimenti sinceri si macchia di un irreparabile opportunismo, dividendosi tra la necessità di portare avanti il “piano” e la gelosia nei confronti di Chuck ed Abby, interpretata da un’ottima Brooke Adams.
Chuck è anch’esso un personaggio molto particolare, silenzioso, quieto osservatore che scruta Abby cercando costantemente di entrare nella sua anima anche dopo il matrimonio, dove lei mantiene una certa distanza. Un uomo gentile, lontano dai soliti stereotipi dei proprietari terrieri, che cerca disperatamente una connessione in una vita solitaria e che sembra destinata a terminare prematuramente. Ma anche lui, davanti alle sconnessioni di questo triangolo indecifrabile, si macchia di peccati, e le sua benevolenza conosce un limite che però non sembra capace di rompere del tutto.
Days Of Heaven è una delle visioni più appaganti e intriganti degli anni ’70 e del cinema tutto, solo in apparenza semplice ma capace di comunicare solo con le immagini e la natura immensi messaggi sulla composizione umana e morale dell’uomo, della meccanica dei nostri sentimenti e cosa accade quando li mettiamo verso strade sbagliate. Non un’apologia alla religione quanto più un’allegoria che immagina una storia dai contorni biblici.
Cinema
A House of Dynamite
Viviamo in un’epoca di grandi crisi mondiali, tanto sociali quanto geopolitiche. Le stabilità di un tempo – sempre che siano state reali – adesso si muovono tra animi sempre più distorti, e le legittime rivendicazioni della società civile contro le atrocità del mondo rendono ancora più lampante la spaccatura tra politica e realtà. Non può che essere quindi rinfrescante ritrovare una cineasta come Kathryn Bigelow, tra i volti più politici e forse per questo sottovalutati del cinema americano, oltre che prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con quel ritratto crudo e inquietante della guerra che era The Hurt Locker (2010).
Kathryn Bigelow
Otto anni dopo l’ultimo film, Detroit del 2017, la Bigelow ha calcato il palco dell’appena passata Mostra del Cinema di Venezia con A House of Dynamite, un’opera mai come ora attuale, ma che si muove intelligentemente nel suo raccontare una storia spaventosamente vicina e verosimile senza sporcare la sua narrazione di dettami politici. E lo fa in una delle maniere più semplici eppure antitetiche possibili: raccontare attraverso tre punti di vista differenti le procedure di reazione degli Stati Uniti ad un imminente (e presunto) attacco missilistico, che in 20 minuti colpirà il suolo americano.
Scenari di guerra
Normalmente un incipit come questo sarebbe una gallina dalle uova d’oro per il cinema più becero e propagandistico che solo gli USA sanno fare, ma ci troviamo davanti alla Bigelow, che non è una regista sprovveduta né tantomeno piena di simpatie per gli americani, e quindi imbastisce una pellicola dal realismo strabiliante, colma di procedure, protocolli, acronimi, il tutto svolto all’interno dei complessi apparati istituzionali atti a rispondere a situazioni del genere. Perché è bene ricordare che, per quanto ci piace pensare che i peggiori scenari siano soltanto nella nostra fantasia, le nazioni sono estremamente preparate per momenti del genere.
E non stiamo parlando di fantapolitica o distopia in stile Fallout, perché le informazioni geopolitiche che ci vengono date qua e là sono più che verosimili, anzi, stupisce come tutto questo accada, almeno nelle fasi iniziali, nell’indifferenza generale, un fulmine a ciel sereno che cala nella normalità del quotidiano e che col passare dei minuti si fa sempre più spazio nelle persone. Ma i primi stessi a gestire con stupore un momento del genere sono gli apparati stessi, dimostrandoci che anche le più avanguardistiche misure di difesa possono fare relativamente poco nei confronti dell’emotività umana.
Effetti speciali
Anche i più esperti membri di questi apparati non possono che farsi prendere dalle emozioni in un momento così catartico e rapidamente in discesa, e ciò viene fatto con un’attenta direzione registica che si rifà molto a quella della serie televisiva capolavoro Succession: camera quasi sempre a mano, movimenti nervosi con un taglio quasi documentaristico, da reporter d’assalto, e soprattutto un uso continuo di claustrofobici crash zooms, che marcano stretti i protagonisti per mostrarli nella loro vulnerabilità, che attenzione non è sintomo di incompetenza, ma di umana reazione a qualcosa che mai avremmo voluto accadesse, mentre delle musiche di Volker Bertelmann acuiscono ulteriormente questa tensione.
Che sia il capitano Olivia Walker nella Situation Room della Casa Bianca, o il comando di Fort Greely, o il Segretario della Difesa fino ad arrivare al Presidente degli Stati Uniti, quello che non cambia è la propensione alle emozioni, a quel fardello di dover prendere delle decisioni precise in un momento di così alta tensione, il tutto senza nessuna epica: non ci sono generali guerrafondai e reazionari, pronti a difendere l’onore della nazione, né tantomeno ci sono eroi che si ergono a salvatori. Ci sono solo persone tutto sommato “comuni” che svolgono le loro prassi, e che si ritrovano a coordinarsi insieme per trovare una risposta univoca prima di dare la decisione finale al Presidente.
Le decisioni del Presidente
Da notare quindi come venga dato spazio a tutto un personale specifico e raramente raccontato nelle filmografie del genere, ricostruendo una gerarchia di esperti che va poi a riferire in ultimo al Presidente, interpretato da un ottimo Idris Elba e a cui viene dedicato solo l’ultimo segmento dei tre in cui è diviso il film. Se da un lato è il segmento più traballante a livello narrativo, in cui ci sono delle scelte un pochino strane, questo è anche il punto più interessante di tutta la pellicola, dove innanzitutto viene rimarcata una cosa che spesso sfugge: il Presidente, e questo penso accade per tutti i Capi di Stato, è una persona idealmente competente, ma che per decidere è affiancato da un numero spropositato di esperti e consiglieri specializzati nei campi di loro competenza.
Compito del Presidente è prendere atto delle valutazioni dei propri consiglieri e in base a queste decidere cosa sia meglio nell’interesse della nazione. Ciò significa quindi che il Presidente è allo stesso bivio umano di tutti coloro che lo affiancano, con la differenza che porta il fardello più grande di tutti, non è diverso da nessuno nel ritrovarsi ad affrontare ciò che fino a pochi minuti prima sembrava impensabile. Questo innesca una dinamica che forse può sembrare anche assurda, ma che rientra in quello che è un approccio umano, e quindi per sua natura fallace.
Il cast
In mezzo a tutto questo trambusto si eleva un cast fatto di interpreti di grande qualità ma scelti con una grande cura, senza considerare particolarmente il divismo: Elba, Rebecca Ferguson, Tracy Letts (solidissima presenza fissa in ruoli secondari), Anthony Ramos, Greta Lee, Gabriel Basso, Jared Harris, Moses Ingram e Jason Clarke per un film fatto, di dialoghi, di supposizioni, di scelte da compiere velocemente in mezzo al panico, dove ogni parola fuori posto, ogni frase strozzata dall’emozione può cambiare totalmente la scelta di una o l’altra soluzione.
La Bigelow umanizzando questi eventi vuole farci comprendere che forse la cosa di cui dobbiamo avere più paura, più delle guerre, più delle tecnologie e degli armamenti, siamo noi umani, che ci armiamo allo sproposito per una guerra che ci raccontiamo non arriverà mai, ma per cui siamo sempre spaventosamente pronti militarmente ma umanamente ancora no e probabilmente mai lo saremo – forse non dovremmo proprio esserlo, mentre il mondo diventa una casa piena di dinamite, pronta ad esplodere come una polveriera. E il finale, nel suo essere anticlimatico, non è frustrante come si sta dicendo in rete, è inquietante: non vuole dare risposte proprio perché vuol chiedere a noi qual è finale che abbiamo da scrivere per l’umanità, quella vera.
Conclusioni
È il film migliore di Kathryn Bigelow? Probabilmente no, ma un tassello fondamentale nell’attualità di oggi per fermarci e spingerci a riflettere su cosa stiamo facendo del nostro mondo, ipotizzando con estremo realismo uno scenario verosimile, intrinsecamente e pericolosamente umano, che esula dalle ideologie lasciando solo la nostra nuda vulnerabilità.
Cinema
Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar
Troppi registi nell’ultimo decennio hanno indugiato nella riflessione sulla loro vita e sulla loro arte, cadendo spesso nel tranello dell’autocompiacimento. Non è il caso di Almodovar, e Dolor y Gloria è quanto di più lontano ci possa essere da una agiografia. Semmai, è un’esplorazione profonda ed intrinsecamente umana dell’uomo, dell’uomo artista e dell’arte che vive di amore, pulsioni, passioni. Il leggendario regista spagnolo si ritrae in parte dalle sue narrazioni piene di provocazioni ed eros e contemporaneamente si rende più vicino, si apre per guardare alla sua intimità.
La storia
La storia è quella di Salvador, regista di fama internazionale la cui attività produttiva è inceppata da anni da una miriade di condizioni fisiche, psicosomatiche e psicologiche, che lo conducono a una vita in quasi totale solitudine, rifuggendo ad ogni tentativo di cedere al richiamo della sua legacy, guardando con cinismo al culto della personalità e della devozione di cui a volte i registi sono vittime (spesso lusingate peraltro). Un uomo che vive nella contraddizione di chi non ha altro scopo per vivere se non girando film e che al contempo ne è impedito non solo fisicamente, ma anche da un trascinarsi senza volersi mettere in sesto, pur potendo.
Il protagonista
Il riallacciare i rapporti con Alberto, protagonista del suo film capolavoro (considerato tale) Sabor, sarà l’occasione per una serie di eventi che riaccendono una miccia nella riflessione emotiva di Salvador, inframezzata da istantanee della sua infanzia vissuta in povertà con la madre Jacinta (una splendida Penelope Cruz), dove già però si intuisce la sua grande intelligenza. Ciò che sorprende però è che questo non è per nulla un racconto “dalle stalle alle stelle”. Dolor y Gloria ci racconta l’arte del cinema attraverso le sensazioni che fanno da benzina al fuoco che divampa in un’artista, alle emozioni che scaturiscono anche attraverso il dolore, il rimpianto, la nostalgia di un passato che non ritorna più.
Numerose sono le contraddizioni presenti, come quelle tra Salvador e il suo ex amante Federico, all’epoca dipendente dall’eroina, una ferita rimasta evidentemente aperta nel primo in rapporto dove il dolore non era percepito allo stesso modo e adesso, dopo trent’anni, i ruoli sembrano invertiti, dove il “pulito” Salvador allevia i suoi dolori con l’eroina dopo essere stato introdotto all’uso da Alberto. Ma si parla anche tanto di come si evolve la nostra anima e il nostro sguardo negli anni, col passare delle esperienze, e ciò cambia anche il nostro modo di vedere le cose e addirittura la nostra stessa arte, come Salvador che si commuove riguardando Sabor per la prima volta:
«Sono i tuoi occhi che sono cambiati. I film non cambiano.»
L’interpretazione di Antonio Banderas nel ruolo di Salvador è immensa, con quella fisicità scavata in volto, con uno sguardo languido, consapevole ma anche smarrito, per un personaggio che vive i suoi dolori in sottrazione, senza nessuna autocommiserazione plateale, ma un’accettazione a volte trattenuta della realtà, delle circostanze che non si possono più cambiare e con cui è difficile far pace.
Anche la madre Jacinta svolge un ruolo fondamentale, combattente tenace nel dare al figlio tutte le possibilità per eccellere nel mondo ma al contempo protagonista di una distanza, marcata da lui stesso da bambino sveglio qual era, come se il filo che lei stava tessendo per la sua vita si fosse piano piano assottigliato fino a sparire, portando alla realizzazione di Salvador ma oltre il controllo, o al desiderio della madre, un fattore che segnerà inevitabilmente il rapporto pur sempre affettuoso tra lei e il figlio, condizionando quest’ultimo anche dopo la sua morte. Parole non a caso perché il desiderio è un elemento altrettanto centrale, oltre che quello della madre anche quello più passionale e carnale che caratterizza l’omosessualità di Salvador.
Bellissime anche le interpretazioni di nel ruolo di Alberto, un attore consumato dall’uso alternato di droghe ma ancora forte di un estro artistico spiccato, e di Leonardo Sbaraglia nel ruolo di Federico.
L’estetica di Almodovar
Anche l’estetica di Almodovar, fiore all’occhiello della sua produzione cinematografica, si evolve. L’uso preponderante di tonalità colorate con particolare enfasi sul rosso non smette semmai diventa più maturo, i colori caldi e vividi qui diventano più “stagionati”, il rosso diventa vinaccio, i colori si attenuando pur rimanendo languidi, vivi, e ogni inquadratura ha una resa estetica immensa che lascia senza fiato, accompagnata anche dalla spasmodica ricerca dal punto di vista degli arredamenti e il focus anche sull’aspetto tattile: pelli umane, divani, superfici, il tufo della grotta dove vive l’infanzia Salvador nel villaggio di Paterna, nell’entroterra valenciano, tutto è a servizio di un grande quadro dove tutto parla, tutto esprime un sentimento, una ricerca di qualcosa.
Per non parlare poi dei quadri nei titoli di testa o tutte le infografiche del corpo umano all’inizio del film, per introdurre la figura di Salvador.
Dolor y Gloria è una pellicola semplicemente folle, forse la più grande sublimazione del cinema almodovoriano, perché qui oltre ai suoi topos comuni c’è un’esplorazione intima e personale che va ancora più fondo, più di quanto si sia mai visto nella sua filmografia, una ricerca emotiva ancora va oltre la passione, va oltre il carnale per trovare il nucleo fondativo che ci rende umani, fragili, passionali e vivi.
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