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Cinema

WineWays, il cinema che racconta il vino 

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Tra film e degustazioni per cinefili e winelovers

PALERMO | ORTO BOTANICO | 21 -24 luglio

Un inedito percorso che rende omaggio a quattro dei cinque sensi e si collega idealmente al bellissimo progetto di Vigna del Gallo, uno dei tanti cuori dell’Orto Botanico di Palermo:  dopo 230 anni di fermo, a giugno scorso le viti hanno regalato i primi grappoli. Quattro sensi dunque: vista ed ecco quattro film dedicati al vino; gusto, e basta degustare; olfatto, ed è bello bearsi dei sentori dei vini; per l’udito basta restar zitti ed ascoltare l’Orto di notte, sarà una sorpresa. WineWays è il nuovo progetto dell’Orto Botanico, preview al festival multidisciplinare Metamorphosis che occuperà i mesi di agosto e settembre tra teatro, musica, danza e letteratura, e mira, nel tempo, a divenire stabile. Intanto, ecco WineWays, curato da Paolo Inglese, direttore del Sistema Museale di Ateneo e dal critico cinematografico Sandro Volpe, in collaborazione con Talea e DOC Sicilia: da domani (giovedì 21 luglio) a domenica un connubio elegante per cinefili, winelovers e semplici amanti del bello.

Realizzato con Sandro Volpe e DOC Sicilia Wineways mette insieme il mondo delle imprese, della ricerca scientifica, della cultura con l’intento dichiarato di scoprire il vino siciliano a 360 gradi, ricordando sempre che custodiamo il Vigneto Sicilia, realizzato con DOC Sicilia e dedicato a Diego Planeta – spiega Paolo Inglese -. È un altro passo di una visione complessiva dell’Orto Botanico come spazio di comunità e di cultura, non eventi spot ma un programma definito che tocchi diversi ambiti e gusti. Chiunque deve poter venire all’Orto e scoprire qualcosa che gli piace”.

Quattro film, quattro incontri e quattro degustazioni,  costruiti come un percorso sensoriale e olfattivo dentro il mondo del vino, analizzato da aspetti diversi. Alle 19, le degustazioni guidate di DOC Sicilia: i primi due giorni (giovedì 21 e venerdì 22 luglio), Nicola Francesca presenterà i due vitigni Grillo e Nero d’Avola, aprendo le degustazioni di cantine siciliane; sabato 23 e domenica 24 luglio ci si dedicherà invece a  Lucido/Cataratto e rosati, anche in questo caso si assaggeranno vini dell’isola. Ad ogni incontro, seguirà alle 21 la proiezione, in piazzale Ucria: Sandro Volpe ha scelto con cura pellicole legate al mondo del vino. Ecco quindi due documentari di Jonathan Nossiter, realizzati a distanza di dieci anni, nel 2004 “Mondovino” e nel 2014 “Resistenza naturale”, per raccontare l’impatto della globalizzazione sulle regioni produttrici di vino e l’esperienza di un gruppo di viticoltori italiani che non si piegano alla standardizzazione del mercato. E due film di Alexander Payne, “Sideways” (2004) e di Cédric Klapisch, “Ritorno in Borgogna” (2017) di mano più narrativa: il primo è un road movie per le strade del vino in California, il secondo racconta una vicenda familiare nella campagna francese. “Cinema d’in

chiesta e cinema  di finzione dentro le cantine, sorso dopo sorso” spiega Sandro Volpe.

WineWays è un progetto del SiMuA (Sistema Museale di Ateneo) e dell’Orto Botanico, in collaborazione CoopCulture, Talea e VM Agency, con il contributo dell’assessorato regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana e di DOC Sicilia.

Biglietti: 8 euro/ 5 euro ridotto studenti e personale UniPa.  Acquisto online su www.coopculture.it

I FILM

Mondovino di Jonathan Nossiter [USA/Francia 2004, durata 135’]

Un documentario-inchiesta che descrive l’impatto della globalizzazione sulle regioni

produttrici di vino e in particolare l’influenza del critico Robert Parker e dell’enologo Michel Rolland nel definire e imporre uno stile internazionale comune. La critica è rivolta in particolare alle ambizioni delle grandi aziende della produzione vinicola – come Mondavi – a danno dei singoli piccoli produttori che hanno perfezionato con la tradizione vini dalle caratteristiche individuali legate al territorio di produzione. Il film è stato girato in diversenazioni: in Italia, tra Toscana, tra Firenze e Bolgheri, e Sardegna, a Bosa; in Francia tra Bordeaux, Borgogna e il paese di Aniane in Linguadoca; negli USA, a Napa Valley; in Argentina, in Brasile e a Londra, presso la casa d’aste Christie’s.

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Sideways – In viaggio con Jack di Alexander Payne [USA 2004, durata 124’]

Con Paul Giamatti, Thomas Haden Church, Sandra Oh, Virginia Madsen

Miles è un insegnante e aspirante scrittore: insicuro con le donne, ha una grande passione e conoscenza dei vini. Si avvicina il matrimonio del suo amico Jack e i due decidono di prendersi una settimana di libertà in viaggio nella zona vinicola di Santa Ynez Valley, nella contea di Santa Barbara in California. Miles vuole bere del buon vino, mangiare cibo di qualità, giocare a golf e non pensare alla ex moglie, mentre Jack nel suo addio al celibato è alla ricerca di un’ultima avventura. Arrivati nella regione dei vigneti, Miles e Jack incontrano Maya e Stephanie, rimettendo in discussione le loro certezze.

Basato sull’omonimo romanzo di Rex Pickett, Sideways è stato un successo a sorpresa a livello internazionale. La Santa Ynez Valley, dove è ambientata la maggior parte del film, ha visto incrementare notevolmente il flusso turistico. Il film prende vita «sorso dopo sorso» quando i vigneti californiani e le cantine illuminano la scena: va lasciato decantare, per apprezzarne le qualità.

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Ritorno in Borgogna (Ce qui nouslie)di Cédric Klapisch [Francia, 2017, durata 113’]

Con Pio Marmaï, François Civil, Ana Girardot – Francia 2017,

Jean si è allontanato dalla famiglia, proprietaria di un grande vigneto a Meursault in Borgogna,per girare il mondo. A causa della malattia del padre, decide di lasciare l’Australia dove vive con la moglie e il figlio, per tornare a casa e riunirsi con la sorella Juliette e il fratello Jérémie. Ma la morte del padre, poco prima dell’inizio della vendemmia, carica i fratelli di nuove responsabilità, tra le quali la necessità di pagare le tasse di successione. Stanno progettando di vendere tutto, ma  si fanno riassorbire dal richiamo della terra che è stata l’orizzonte della loro infanzia, dalle regole rigorose e dalle responsabilità di un lavoro che hanno nel sangue. E ricostruiranno il legame con il comune passato.

«Per me, il vino è mio padre. Conosco il vino attraverso mio padre – che praticamente non beve altro che vino della Borgogna. Quando iniziai a bere mi fece assaggiare il suo vino. Grazie a lui ho imparato ad apprezzarlo. Sono tornato a vedere i documentari di Jonathan Nossiter,tra cui Mondovino, è stato uno dei miei riferimenti. Ma la cosa fondamentale sono state le foto che ho scattato in Borgogna negli ultimi dieci anni. Quando visiti più volte lo stesso luogo allora puoi avere uno sguardo preciso e conoscere quel posto in tutto e per tutto. D’un tratto sai come portarlo sullo schermo» (C.Klapisch).

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Resistenza naturale (Natural Resistance)di Jonathan Nossiter[Italia/Francia 2014, durata 85’]

Jonathan Nossiter, dieci anni dopo Mondovino, torna a occuparsi della produzione vinicola.Mette insieme quattro produttori, Stefano Bellotti della Cascina degli Ulivi (Novi Ligure),Elena e Anna Pantaleoni e Giulio Armani di La Stoppa (Piacenza), Giovanna Tiezzi e Stefano Borsa di Pacina (Siena) e Corrado Dottori e Valeria Bochi di La Distesa (Cupramontana): sono loro a raccontare cosa significhi fare i vignaioli oggi – con una produzione biologica – quando tutto è subalterno all’industria alimentare. Una riflessione alternata a quindici estratti di film,un dispositivo di commento entro il film stesso e un omaggio alla Cineteca di Bologna,complice del progetto.

«Durante il montaggio è nato un dialogo appassionato e carico di energia tra cinema e vino.L’intero processo è diventato una conversazione gioiosa tra due mondi che hanno una sorprendente quantità di cose in comune e che possono avere qualcosa da imparare l’uno dall’altro» (J.Nossiter).

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Cinema

Days of Heaven di Terrence Malick

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Se il desiderio di tutta una vita è la felicità per sé e per i propri cari, quanto saremmo disposti a sacrificare, sia materialmente che moralmente, per soddisfare quel desiderio? Dov’è il confine che demarca il punto in cui i nostri sforzi non sono più sensati, trasformati in ciclico processo di rancore e sopraffazione morale? Che senso ha avuto quella vita, sempre che ne abbia mai avuto uno? Se queste domande risuonano spirituale è perché lo sono, e Terrence Malick è il regista perfetto per tradurre questa visione in immagini, più che in parole, perché il cinema del cineasta americano – in una carriera molto particolare e costellata di progetti irrealizzati – è semplicemente unico nel modo in cui comunica.

L’uso delle immagini

Basta guardare all’uso delle immagini sin dall’inizio di questo    go del 1916. Subito dopo, la contrapposizione: distese infinite di grando nelle campagne rurali del Texas, un fu selvaggio West che si staglia sconfinato all’orizzonte. In mezzo troviamo Bill, la compagna Abby e la sorella Linda, desaparesidos in cerca di una vita migliore dopo anni di fatiche.

Terrence Malick (Regista)

L’incipit

Ad un primo sguardo l’incipit di Days of Heaven può sembrare semplice, e anche il suo sviluppo potrebbe essere considerato semplice: tra orari interminabili a raccogliere grano insieme a centinaia di braccianti, Abby colpisce dritto nel cuore di Chuck, il timido proprietario della fattoria e afflitto da un male sconosciuto che apparentemente gli lascia poco da vivere. In quell’anima privilegiata ma contemporaneamente plagiata dai mali del corpo umano che ha messo i suoi occhi su Abby, Bill vede la possibilità di vivere la vita che hanno sempre sognato. Sposando Chuck, a Abby basterà solo aspettare che la natura faccia il suo corso permettendo a lei, Bill e Linda di ereditare le sue fortune.

Un sentiero inevitabilmente oscuro, rischioso soprattutto a livello umano: sacrificare il proprio amore, in totale abnegazione dei propri sentimenti – cosa peraltro già messa in atto, dato che Bill e Abby fingono di essere fratello e sorella per evitare chiacchere – pur di ottenere l’accesso ad una vita tanto desiderata. Ma un piano del genere non potrà mai essere semplice, né tantomeno fattibile senza dare via qualcosa, ed in questo caso è la purezza d’animo che viene sacrificata in nome di qualcosa di terreno, effimero se comparato alla grandezza e alla potenza dell’amore, che avrebbe potuto resistere ad ogni asperità, e che invece viene svenduto dietro la chimera di un trionfo. Ma sarà l’amore stesso a ridare la stessa moneta ai nostri protagonisti.

L’atmosfera e i luoghi

L’elemento più affascinante della visione di Malick in Days of Heaven è il come questa progressione non avvenga mai con fatti propriamente espliciti, con interazioni tra i protagonisti. L’atmosfera e i luoghi del film sono parte integrante del cast, si amalgamano con essi per riflettere spiritualmente le loro vicende e i loro stati d’animo. E quando quest’ultimi diventano avversi, anche i luoghi lo diventano, facendosi simbolo del turbamento e del Male che lentamente si insidia tra queste persone. Tutto questo dentro una pellicola che, come si può già intuire, dietro un semplice triangolo amoroso nasconde un simbolismo spirituale e religioso estremamente marcato.

Impossibile non ritrovare nelle radure incontaminate e in questi immensi campi degli espliciti rimandi biblici, dove la natura ancora solo sfiorata dalle tecnologie umane parla con i suoi movimenti silenziosi nel ruolo di una terra promessa, l’Eden, meta ultima di persone senza storia, senza passato (o che vogliono lasciarselo alle spalle come Bill), ma che, come nel mito di Adamo ed Eva, viene macchiato dal peccato. Chiaramente Malick esplora queste analogie in maniera molto sottile e con un taglio molto naturalistico, ma quello appena descritto può rendere almeno in parte l’idea di ciò che si vedrà a schermo, ma Days of Heaven è un’esperienza cinematografica innanzitutto da vivere, in cui immergersi nelle sue immagini.

La fotografia

La fotografia di Nestos è una delle più belle che io abbia mai visto, e sorprende come lui stesso fosse afflitto da una parziale cecità durante le riprese, operando spesso in maniera spontanea e dalle indicazioni dei suoi assistenti, ricorrendo tantissimo all’uso delle luci naturali. Il risultato è magnifico, spettacolare ma mai magniloquente, semmai spontaneo, naturale, con la camera che sembra spesso poggiarsi su questi paesaggi in totale contemplazione, anticipando di trent’anni ciò che Malick compirà, con migliori mezzi tecnici, in opere come The New World e soprattutto The Tree Of Life.

Qui però si potrebbe dire che il regista trova una coniugazione stilistico-visiva perfetta, che si colloca tra il cinema più diretto ed inevitabilmente influenzato dalla New Hollywood di Badlands e l’astrattismo concettuale che si vedrà poi in The Tree Of Life. Le immagini parlano ma non disperdono mai la narrazione, la inglobano facendosi sfondo e comprimario degli sguardi dei protagonisti, dei baci rubati e delle parole non dette che intercorrono tra Bill, Abby e Chuck.

Gli attori

Nonostante Malick volesse all’inizio Dustin Hoffman o John Travolta nel ruolo di Bill, la performance di un allora sconosciuto Richard Gere funziona alla perfezione grazie a quello sguardo che da un lato è quasi infantile, puro, dall’altro è sospettoso, come se ci fosse sempre qualcosa che si nasconde in quel sorriso, in quel suo essere affabile per un personaggio che da dei sentimenti sinceri si macchia di un irreparabile opportunismo, dividendosi tra la necessità di portare avanti il “piano” e la gelosia nei confronti di Chuck ed Abby, interpretata da un’ottima Brooke Adams.

Chuck è anch’esso un personaggio molto particolare, silenzioso, quieto osservatore che scruta Abby cercando costantemente di entrare nella sua anima anche dopo il matrimonio, dove lei mantiene una certa distanza. Un uomo gentile, lontano dai soliti stereotipi dei proprietari terrieri, che cerca disperatamente una connessione in una vita solitaria e che sembra destinata a terminare prematuramente. Ma anche lui, davanti alle sconnessioni di questo triangolo indecifrabile, si macchia di peccati, e le sua benevolenza conosce un limite che però non sembra capace di rompere del tutto.

Days Of Heaven è una delle visioni più appaganti e intriganti degli anni ’70 e del cinema tutto, solo in apparenza semplice ma capace di comunicare solo con le immagini e la natura immensi messaggi sulla composizione umana e morale dell’uomo, della meccanica dei nostri sentimenti e cosa accade quando li mettiamo verso strade sbagliate. Non un’apologia alla religione quanto più un’allegoria che immagina una storia dai contorni biblici.

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Cinema

A House of Dynamite

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Viviamo in un’epoca di grandi crisi mondiali, tanto sociali quanto geopolitiche. Le stabilità di un tempo – sempre che siano state reali – adesso si muovono tra animi sempre più distorti, e le legittime rivendicazioni della società civile contro le atrocità del mondo rendono ancora più lampante la spaccatura tra politica e realtà. Non può che essere quindi rinfrescante ritrovare una cineasta come Kathryn Bigelow, tra i volti più politici e forse per questo sottovalutati del cinema americano, oltre che prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con quel ritratto crudo e inquietante della guerra che era The Hurt Locker (2010).

Kathryn Bigelow

Otto anni dopo l’ultimo film, Detroit del 2017, la Bigelow ha calcato il palco dell’appena passata Mostra del Cinema di Venezia con A House of Dynamite, un’opera mai come ora attuale, ma che si muove intelligentemente nel suo raccontare una storia spaventosamente vicina e verosimile senza sporcare la sua narrazione di dettami politici. E lo fa in una delle maniere più semplici eppure antitetiche possibili: raccontare attraverso tre punti di vista differenti le procedure di reazione degli Stati Uniti ad un imminente (e presunto) attacco missilistico, che in 20 minuti colpirà il suolo americano.

Scenari di guerra

Normalmente un incipit come questo sarebbe una gallina dalle uova d’oro per il cinema più becero e propagandistico che solo gli USA sanno fare, ma ci troviamo davanti alla Bigelow, che non è una regista sprovveduta né tantomeno piena di simpatie per gli americani, e quindi imbastisce una pellicola dal realismo strabiliante, colma di procedure, protocolli, acronimi, il tutto svolto all’interno dei complessi apparati istituzionali atti a rispondere a situazioni del genere. Perché è bene ricordare che, per quanto ci piace pensare che i peggiori scenari siano soltanto nella nostra fantasia, le nazioni sono estremamente preparate per momenti del genere.

E non stiamo parlando di fantapolitica o distopia in stile Fallout, perché le informazioni geopolitiche che ci vengono date qua e là sono più che verosimili, anzi, stupisce come tutto questo accada, almeno nelle fasi iniziali, nell’indifferenza generale, un fulmine a ciel sereno che cala nella normalità del quotidiano e che col passare dei minuti si fa sempre più spazio nelle persone. Ma i primi stessi a gestire con stupore un momento del genere sono gli apparati stessi, dimostrandoci che anche le più avanguardistiche misure di difesa possono fare relativamente poco nei confronti dell’emotività umana.

Effetti speciali

Anche i più esperti membri di questi apparati non possono che farsi prendere dalle emozioni in un momento così catartico e rapidamente in discesa, e ciò viene fatto con un’attenta direzione registica che si rifà molto a quella della serie televisiva capolavoro Succession: camera quasi sempre a mano, movimenti nervosi con un taglio quasi documentaristico, da reporter d’assalto, e soprattutto un uso continuo di claustrofobici crash zooms, che marcano stretti i protagonisti per mostrarli nella loro vulnerabilità, che attenzione non è sintomo di incompetenza, ma di umana reazione a qualcosa che mai avremmo voluto accadesse, mentre delle musiche di Volker Bertelmann acuiscono ulteriormente questa tensione.

Che sia il capitano Olivia Walker nella Situation Room della Casa Bianca, o il comando di Fort Greely, o il Segretario della Difesa fino ad arrivare al Presidente degli Stati Uniti, quello che non cambia è la propensione alle emozioni, a quel fardello di dover prendere delle decisioni precise in un momento di così alta tensione, il tutto senza nessuna epica: non ci sono generali guerrafondai e reazionari, pronti a difendere l’onore della nazione, né tantomeno ci sono eroi che si ergono a salvatori. Ci sono solo persone tutto sommato “comuni” che svolgono le loro prassi, e che si ritrovano a coordinarsi insieme per trovare una risposta univoca prima di dare la decisione finale al Presidente.

Le decisioni del Presidente

Da notare quindi come venga dato spazio a tutto un personale specifico e raramente raccontato nelle filmografie del genere, ricostruendo una gerarchia di esperti che va poi a riferire in ultimo al Presidente, interpretato da un ottimo Idris Elba e a cui viene dedicato solo l’ultimo segmento dei tre in cui è diviso il film. Se da un lato è il segmento più traballante a livello narrativo, in cui ci sono delle scelte un pochino strane, questo è anche il punto più interessante di tutta la pellicola, dove innanzitutto viene rimarcata una cosa che spesso sfugge: il Presidente, e questo penso accade per tutti i Capi di Stato, è una persona idealmente competente, ma che per decidere è affiancato da un numero spropositato di esperti e consiglieri specializzati nei campi di loro competenza.

Compito del Presidente è prendere atto delle valutazioni dei propri consiglieri e in base a queste decidere cosa sia meglio nell’interesse della nazione. Ciò significa quindi che il Presidente è allo stesso bivio umano di tutti coloro che lo affiancano, con la differenza che porta il fardello più grande di tutti, non è diverso da nessuno nel ritrovarsi ad affrontare ciò che fino a pochi minuti prima sembrava impensabile. Questo innesca una dinamica che forse può sembrare anche assurda, ma che rientra in quello che è un approccio umano, e quindi per sua natura fallace.

Il cast

In mezzo a tutto questo trambusto si eleva un cast fatto di interpreti di grande qualità ma scelti con una grande cura, senza considerare particolarmente il divismo: Elba, Rebecca Ferguson, Tracy Letts (solidissima presenza fissa in ruoli secondari), Anthony Ramos, Greta Lee, Gabriel Basso, Jared Harris, Moses Ingram e Jason Clarke per un film fatto, di dialoghi, di supposizioni, di scelte da compiere velocemente in mezzo al panico, dove ogni parola fuori posto, ogni frase strozzata dall’emozione può cambiare totalmente la scelta di una o l’altra soluzione.

La Bigelow umanizzando questi eventi vuole farci comprendere che forse la cosa di cui dobbiamo avere più paura, più delle guerre, più delle tecnologie e degli armamenti, siamo noi umani, che ci armiamo allo sproposito per una guerra che ci raccontiamo non arriverà mai, ma per cui siamo sempre spaventosamente pronti militarmente ma umanamente ancora no e probabilmente mai lo saremo – forse non dovremmo proprio esserlo, mentre il mondo diventa una casa piena di dinamite, pronta ad esplodere come una polveriera. E il finale, nel suo essere anticlimatico, non è frustrante come si sta dicendo in rete, è inquietante: non vuole dare risposte proprio perché vuol chiedere a noi qual è finale che abbiamo da scrivere per l’umanità, quella vera.

Conclusioni

È il film migliore di Kathryn Bigelow? Probabilmente no, ma un tassello fondamentale nell’attualità di oggi per fermarci e spingerci a riflettere su cosa stiamo facendo del nostro mondo, ipotizzando con estremo realismo uno scenario verosimile, intrinsecamente e pericolosamente umano, che esula dalle ideologie lasciando solo la nostra nuda vulnerabilità.

 

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Cinema

Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar

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Troppi registi nell’ultimo decennio hanno indugiato nella riflessione sulla loro vita e sulla loro arte, cadendo spesso nel tranello dell’autocompiacimento. Non è il caso di Almodovar, e Dolor y Gloria è quanto di più lontano ci possa essere da una agiografia. Semmai, è un’esplorazione profonda ed intrinsecamente umana dell’uomo, dell’uomo artista e dell’arte che vive di amore, pulsioni, passioni. Il leggendario regista spagnolo si ritrae in parte dalle sue narrazioni piene di provocazioni ed eros e contemporaneamente si rende più vicino, si apre per guardare alla sua intimità.

La storia

La storia è quella di Salvador, regista di fama internazionale la cui attività produttiva è inceppata da anni da una miriade di condizioni fisiche, psicosomatiche e psicologiche, che lo conducono a una vita in quasi totale solitudine, rifuggendo ad ogni tentativo di cedere al richiamo della sua legacy, guardando con cinismo al culto della personalità e della devozione di cui a volte i registi sono vittime (spesso lusingate peraltro). Un uomo che vive nella contraddizione di chi non ha altro scopo per vivere se non girando film e che al contempo ne è impedito non solo fisicamente, ma anche da un trascinarsi senza volersi mettere in sesto, pur potendo.

Il protagonista

Il riallacciare i rapporti con Alberto, protagonista del suo film capolavoro (considerato tale) Sabor, sarà l’occasione per una serie di eventi che riaccendono una miccia nella riflessione emotiva di Salvador, inframezzata da istantanee della sua infanzia vissuta in povertà con la madre Jacinta (una splendida Penelope Cruz), dove già però si intuisce la sua grande intelligenza. Ciò che sorprende però è che questo non è per nulla un racconto “dalle stalle alle stelle”. Dolor y Gloria ci racconta l’arte del cinema attraverso le sensazioni che fanno da benzina al fuoco che divampa in un’artista, alle emozioni che scaturiscono anche attraverso il dolore, il rimpianto, la nostalgia di un passato che non ritorna più.

Numerose sono le contraddizioni presenti, come quelle tra Salvador e il suo ex amante Federico, all’epoca dipendente dall’eroina, una ferita rimasta evidentemente aperta nel primo in rapporto dove il dolore non era percepito allo stesso modo e adesso, dopo trent’anni, i ruoli sembrano invertiti, dove il “pulito” Salvador allevia i suoi dolori con l’eroina dopo essere stato introdotto all’uso da Alberto. Ma si parla anche tanto di come si evolve la nostra anima e il nostro sguardo negli anni, col passare delle esperienze, e ciò cambia anche il nostro modo di vedere le cose e addirittura la nostra stessa arte, come Salvador che si commuove riguardando Sabor per la prima volta:

«Sono i tuoi occhi che sono cambiati. I film non cambiano.»

L’interpretazione di Antonio Banderas nel ruolo di Salvador è immensa, con quella fisicità scavata in volto, con uno sguardo languido, consapevole ma anche smarrito, per un personaggio che vive i suoi dolori in sottrazione, senza nessuna autocommiserazione plateale, ma un’accettazione a volte trattenuta della realtà, delle circostanze che non si possono più cambiare e con cui è difficile far pace.

Anche la madre Jacinta svolge un ruolo fondamentale, combattente tenace nel dare al figlio tutte le possibilità per eccellere nel mondo ma al contempo protagonista di una distanza, marcata da lui stesso da bambino sveglio qual era, come se il filo che lei stava tessendo per la sua vita si fosse piano piano assottigliato fino a sparire, portando alla realizzazione di Salvador ma oltre il controllo, o al desiderio della madre, un fattore che segnerà inevitabilmente il rapporto pur sempre affettuoso tra lei e il figlio, condizionando quest’ultimo anche dopo la sua morte. Parole non a caso perché il desiderio è un elemento altrettanto centrale, oltre che quello della madre anche quello più passionale e carnale che caratterizza l’omosessualità di Salvador.

Bellissime anche le interpretazioni di nel ruolo di Alberto, un attore consumato dall’uso alternato di droghe ma ancora forte di un estro artistico spiccato, e di Leonardo Sbaraglia nel ruolo di Federico.

L’estetica di Almodovar

Anche l’estetica di Almodovar, fiore all’occhiello della sua produzione cinematografica, si evolve. L’uso preponderante di tonalità colorate con particolare enfasi sul rosso non smette semmai diventa più maturo, i colori caldi e vividi qui diventano più “stagionati”, il rosso diventa vinaccio, i colori si attenuando pur rimanendo languidi, vivi, e ogni inquadratura ha una resa estetica immensa che lascia senza fiato, accompagnata anche dalla spasmodica ricerca dal punto di vista degli arredamenti e il focus anche sull’aspetto tattile: pelli umane, divani, superfici, il tufo della grotta dove vive l’infanzia Salvador nel villaggio di Paterna, nell’entroterra valenciano, tutto è a servizio di un grande quadro dove tutto parla, tutto esprime un sentimento, una ricerca di qualcosa.

Per non parlare poi dei quadri nei titoli di testa o tutte le infografiche del corpo umano all’inizio del film, per introdurre la figura di Salvador.

Dolor y Gloria è una pellicola semplicemente folle, forse la più grande sublimazione del cinema almodovoriano, perché qui oltre ai suoi topos comuni c’è un’esplorazione intima e personale che va ancora più fondo, più di quanto si sia mai visto nella sua filmografia, una ricerca emotiva ancora va oltre la passione, va oltre il carnale per trovare il nucleo fondativo che ci rende umani, fragili, passionali e vivi.

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