

Teatro
“Una famiglia quasi perfetta”
Ci siamo abituati a vederlo spesso con un ruolo di attore stereotipato, una scelta quasi obbligata da parte di molti registi che quando hanno pensato una sceneggiatura che prevedeva il tipico uomo medio – borghese – napoletano, spesso hanno pensato a lui. Carlo Buccirosso, la sua maturità artistica nel cinema l’ha raggiunta interpretando il ruolo di Cirino Pomicino ne “Il divo” di Paolo Sorrentino, premio Ciak come migliore attore non protagonista, regista che lo riconferma anche nel film che gli è valso l’oscar con “La grande bellezza”, come l’amico del protagonista Gambardella. Eppure il pubblico lo aveva già apprezzato in teatro con la commedia in salsa agrodolce “La vita è una cosa meravigliosa”, ma la scelta di scrivere un testo e realizzarlo col cipiglio del regista ha rappresentato per lui una operazione teatrale di alto profilo, perfettamente intuita dal direttore artistico del Teatro “Al Massimo” di Palermo, Aldo Morgante, che l’ha fortemente voluta e inserita come secondo importante appuntamento in cartellone. “Una famiglia quasi perfetta” affronta temi attuali, come l’affidamento, la famiglia, la malattia, la giustizia. Buccirosso decide di aprire il sipario con la prima scena ambientata nello studio dell’avvocato Percuoco, viene subito in mente quel pavido personaggio storico dei Promessi sposi dell’Azzecca-garbugli, interpretato da uno straordinario Gino Monteleone, lo stesso che è stato fra i protagonisti della piece “Natale in casa Cupiello” di Nello Mascia. Accanto a lui il fidato praticante legale, il giovane attore Giordano Bassetti, nel finale con le orecchie fasciate per i fendenti del coltello dell’ergastolano Salvatore Troianello, che lo fanno somigliare a un doberman. Il protagonista è un ex macellaio, si è fatto 22 anni di carcere per avere ucciso la moglie. Uscito di prigione ingaggia un’attrice, nella vita è Fiorella Zullo, e la spaccia come sua compagna “sterile” per riprendersi quel figlio che aveva dovuto lasciare dopo avere commesso l’uxoricidio. Così piomba nello studio dell’avvocato che fece assegnare in affidamento il piccolo Pinuccio, ad una coppia, lui affermato psicologo, il bravo interprete Peppe Miale, lei insoddisfatta casalinga, Rosalia Porcaro. Il suo ruolo assume i toni della schizofrenica; a volte tranquilla e pacata, isterica e da ricovero psichiatrico in altri momenti, soprattutto quando tenta più volte di ingaggiare il duello con il pericoloso Troianello. Rosalia Porcaro è perfetta nei panni di una casalinga frustrata che riversa emozioni e attenzioni a questo figlio adottivo che colma un vuoto naturale nella vita di una coppia che non può averne. Si muove elegante sul palco, ci si ricorda di lei per le esilaranti apparizioni in tv a Zelig Circus e all’Ottavo nano, nei panni di Assundam, donna afgana ma con l’accento napoletano. Buccirosso ha il grande merito, nel secondo atto, di trattare con stile e delicatezza il tema della malattia; i suoi occhi sono stupiti e smarriti nello scoprire e misconoscere un figlio che non aveva mai visto con il corpo di un bimbo, ma con un’età di 29 anni. E qui il regista è bravo nell’accendere i riflettori su una malattia genetica rara, la sindrome di Werner, che provoca invecchiamento precoce. Pinuccio è l’attore Davide Marotta; domina la scena con grande bravura e professionalità incurante della sua statura che per gli occhi e le orecchie degli spettatori fa tenerezza e commuove. Pubblico colpito dall’amore dei suoi genitori adottivi che, con gesti e parole, lo aiutano nel superamento della barriera dell’handicap che porta il piccolo quasi ad una autoironia quando il papà naturale, gli regala uno smoking taglia 48, che lui non potrà mai indossare, perché è alto un metro. Tutto si consuma tra la cucina e il soggiorno di una tranquilla villetta residenziale. Le luci sono calde e l’atmosfera è di famiglia perfetta, con un figlioletto da viziare, occhiali da fighetto e ipad; curato nei vestiti, e affidato a una tata, la spiritosa Tilde De Spirito, con il suo italiano da straniera dell’est e la sua incessante focosità diverte molto. Il cambio scena tra il primo e il secondo atto, avviene a sipario aperto, con silenziosi movimenti dei macchinisti; si passa dallo studio legale alla casa per un crescendo di dialoghi che toccano a volte la drammaturgia di quel gigante tanto caro a Buccirosso che fu Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello” e “Filomena Marturano”. Il regista e attore, in questo lavoro, si spoglia dei panni della macchietta napoletana e veste quelli dell’autore attento nel legare i momenti e renderli divertenti con gag e battute che solo l’anima partenopea riesce a esprimere appieno. Ci ricorda Totò, quando alternava sorrisi e lacrime. La Compagnia Enfi Teatro Produzione di Michele Gentile, raccoglie alla fine gli applausi perché racconta bene la famiglia, sia pure imperfetta, ma sempre il più importante punto di riferimento per chi, entrato in carcere, perde per sempre la sua dignità. Senza famiglia non sei nessuno, lo grida con un nodo in gola Buccirosso, che anche nel finale, nonostante le numerose repliche, riesce ancora commuoversi, recuperando il tempo perduto lasciando il figlio alla famiglia naturale con 15 mila euro strappati al codardo avvocato che doveva fare vincere una causa persa in partenza.
In Evidenza
Quel male oscuro, malessere di vivere!

Non è forse casuale che, a distanza di un mese, il Teatro Biondo celebri due capolavori della letteratura del novecento. A dicembre, Alessandro Haber ha portato in scena il romanzo psicoanalitico di Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in questo giorni, il regista Giuseppe Dipasquale, dirige una straordinaria compagnia di attori, capitanata da Alessio Vassallo, ne “Il male oscuro” di Giuseppe Berto. E’ proprio quest’ultimo, nella stesura del testo, dapprima rifiutato da più di un editore e poi pubblicato nel 1964 da Rizzoli, ispirò anche l’indimenticabile Mario Monicelli, che nel 1990, nel film omonimo, affidò il ruolo da protagonista a Giancarlo Giannini. Il male oscuro celebra l’antieroe sveviano, diviso tra senso del dovere e desideri frustrati.
I costumi di Dora Argento, le scene di Antonio Fiorentino (Dipasquale le definisce una sorta di placenta cerebrale, un luogo altro), i movimenti coreografici di Rebecca Murgi e le musiche di Germano Mazzocchetti fanno da corollario ad un affiatato gruppo di attori, Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo, Ginevra Pisani, che si muovono sul palco a piedi nudi, cambiando abiti e personaggi di continuo, avvitandosi intorno a storie di profonda natura psicologica, non abbandonando mai la scena. Il protagonista è Bepi, nei panni di un elegante Alessio Vassallo, che nel cinema come nella fiction televisiva, ma soprattutto in teatro, restituisce al pubblico una interpretazione magistrale. Quasi due ore ininterrotte di recitazione, senza un minimo cedimento, con una forza espressiva a metà tra il malinconico, vivendo la paura di avere un cancro, e l’euforia finale che passa ancora a malessere di vivere.
La psicoanalisi, per stessa ammissione dell’analista, un immenso Ninni Bruschetta, gli permettere di fare un viaggio, che ci richiama all’Interpretazione dei sogni, capolavoro del 1899 di Sigmund Freud. Dipasquale fa uno straordinario lavoro intellettuale sui personaggi, sospesi tra l’onirico e il reale, cercando di fare comprendere allo spettatore le patologie psichiche, attraverso l’utilizzo della narrazione, che diventa prezioso materiale affettivo e mentale, in risposta a quel super – io, più volte ricordato dagli attori, che la coscienza, a volte tende, ad occultare.
E’ affascinante la storia di questo scrittore di cui si ha l’impressione che la vita gli sfugga continuamente di mano, che non riesce a elaborare il lutto della perdita di un padre autoritario, che vive in bilico fra una moglie e un’amante troppo giovane; le loro storie scivolano nel grottesco, alimentando nel protagonista quel male oscuro, che è la depressione. Ecco dunque che il lettino diventa catarsi, medium di purificazione tra Es, Io e Super – Io. “Il teatro come specchio della natura”, lo afferma, attraverso questa opera, il regista, richiamandosi a Shakespeare.
Dopo Palermo, la tournee va in giro in Italia grazie alla co-produzione dei Teatri Biondo, Marche e Stabile di Catania.
- ph © rosellina garbo
In Evidenza
Teatro e donne: un progetto al femminile

Un’esperienza trasformativa per le partecipanti
Un percorso tra arte e solidarietà
Un successo che guarda al futuro
In Evidenza
Il racconto dell’ancella di Viola Graziosi e il distopico

Viola Graziosi è un’attrice immensa e quando si fa dirigere dal marito, il grande attore di teatro Graziano Piazza, lo diventa ancora di più, in una performance artistica che impegna voce e corpo in quasi due ore di spettacolo.
Margaret Atwood
Interpretare June Osborne, la protagonista del racconto della scrittrice canadese Margaret Atwood, “Il Racconto dell’ancella”, andata in scena al teatro Libero di Palermo, non è facile, anche perché il pubblico negli ultimi anni ha tributato un grande consenso al romanzo distopico del 1985, che ha venduto milioni di copie, adattato per il grande schermo nell’omonimo film diretto da Volker Schlöndorff e nel 2017 per la televisione.
The Handmaid’s Tale
Tutte le stagioni sono su Prime video sotto il titolo di The Handmaid’s Tale. Il suo ideatore Bruce Miller, forse non si aspettava tanto successo, grazie all’attrice protagonista Elisabeth Moss che interpreta June. Sono molto simili la Moss e la Graziosi, nel cinema la prima è dentro il regime teocratico totalitario di Gilead, catturata mentre tentava di fuggire in Canada con suo marito, Luke, e sua figlia, Hannah. Grazie alla sua fertilità, diventa una ancella del comandante Fred Waterford (da qui il nome Difred) e sua moglie, Serena Joy; l’altra Viola Graziosi, in Teatro, si immerge nel testo, tradotto da Camillo Pennati.
Viola Graziosi
Per lei tutto ha avuto inizio 5 anni su un input di Laura Palmieri di Radio 3 che le chiese di portare in scena questa incredibile storia, proprio il giorno della festa della donna. Il palco è come una sorta di anfiteatro dove tante paia di scarpe rosse, delimitano un semicerchio con al centro un abito rosso che ci richiama alle antiche vestali. Viola inizia il suo racconto illuminata soltanto da un occhio di bue che le delimita luci e ombre sul viso e sul corpo.
Un viaggio introspettivo
Lo spettatore vive una sorta di viaggio introspettivo amando il coraggio di una donna che diventa emblema anche di alcuni movimenti di protesta a sostegno dei diritti delle donne. “Nolite te bastardes carborundorum” e “Ci sono domande?” Sono due frasi ricorrenti nell’opera, spesso usate come motto di emancipazione femminile, ed è proprio il racconto di Viola Graziosi che spinge il pubblico quasi a una catarsi liberatoria in cui in scena, attraverso la parola, il corpo si svela non soltanto come mezzo di procreazione.
La repubblica di Gilead
Nel racconto dell’ancella in versione teatrale e televisiva lo spettatore è spinto a detestare i comandanti di una Repubblica, Gilead, dove le donne sono asservite a loro per scopi riproduttivi e dove quelle non fertili o troppo anziane sono dichiarate “Nondonne” e quindi eliminate.
Sorvegliate e divise in categorie secondo il colore dei vestiti: azzurro le Mogli; verde le Marte, le domestiche; marrone le Zie, sorveglianti; rosso le Ancelle, le uniche in grado di procreare. Nessuna può disobbedire, pena la morte o la deportazione. Non hanno bisogno di leggere, di scrivere, di pensare, di stancarsi troppo. Non vanno in giro da sole di modo che non possano essere importunate. Sono vestite di rosso con un cappuccetto bianco, in modo tale da non venir troppo viste e possono anche evitare di guardare, se non vogliono.
E’ un racconto immaginato in un futuro irreale e forse Viola Graziosi, con questa “opera magna” vuole farci comprendere come la donna sia ancora oggi discriminata da una becera cultura maschile che non si rassegna!
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